(noir esistenziale)
Loris uscì dal portone di casa, come ogni mattina, sotto un cielo sporco e umido. Palermo, ottobre, grigia come il fondo del suo animo.
Si fermò un istante. Un piccolo insetto stava immobile sul pavimento, proprio davanti a lui. Lo guardò. Senza esitazione, ruotò lentamente la punta della scarpa sopra il corpo molle. Scricchiolò. Si leccò le labbra, soddisfatto.
Pulì la suola sullo zerbino. Una piccola macchia marrone gli colorava la giornata.
Fin da bambino aveva provato piacere in quei gesti. Strappare le ali alle mosche, staccare le zampe ai ragni, vedere come zoppicavano. Era come avere il potere di decidere chi vive e chi no. E a Loris quel potere piaceva.
Il portinaio lo salutò con un cenno. Loris lo ignorò. Non per scortesia, ma perché quel tipo di uomini per lui non esistevano. Come gli insetti. O peggio.
Si incamminò verso l’ufficio. Traffico, clacson, la puzza di gas e umanità marcia. Pensava alla giornata, alla tintoria, alle donne, alle telefonate da fare. Estrasse il portafogli, controllò lo scontrino:
“Data di consegna: venerdì 27 novembre.”
Sorrise. Aveva buona memoria. La memoria è potere, anche quello.
Poi attraversò.
Non vide l’auto. Non la sentì nemmeno. Solo un tonfo ovattato, un’improvvisa assenza di gravità. Volò per un paio di metri e si ritrovò a terra.
Era lucido. Le gambe si muovevano, le braccia pure. Ma restò lì. Qualcuno iniziò a gridare. Una donna si fece largo tra la folla.
«Non l’ho visto… Dio mio… è sceso all’improvviso…»
Loris socchiuse gli occhi.
Gemette. Più forte.
Poi parlò, con voce strozzata: «L’ambulanza no. Non serve. Solo un attimo di… debolezza.»
Lei lo guardava come si guarda un cane investito.
«Mi aiuti ad alzarmi» disse lui.
La donna annuì. Lo sollevò con goffa premura. Loris la fissò.
Era bassa, faccia anonima, vestita male, scarpe sporche.
«Ha idea che potevo morire, grazie a lei?» le disse con veleno nella voce.
Lei abbassò lo sguardo, muta.
«Come la mettiamo ora?» proseguì, «Io in queste condizioni non posso fare nulla. Nemmeno andare in tintoria…»
«Posso aiutarla…» sussurrò lei. «Dopo il lavoro… mi dica…»
Lui la fissò. Aveva trovato un’altra mosca da spennare. Le diede l’indirizzo, lo scontrino, le sue generalità. Poi la lasciò andare. Camminò verso l’ufficio con un ghigno: Forse ne esce qualcosa di buono da questa giornata di merda.
Quella sera si presentò puntuale. Pacco in mano, sguardo basso.
«Come sta?» chiese lei.
«Come uno che è stato investito. Ti pare poco?»
Lei arrossì.
«Cosa posso fare per lei?»
«Niente sforzi per un mese, mi ha detto il medico.»
Lei annuì, docile.
«Di sabato faccio le pulizie. Ma non posso. Potresti occupartene tu.»
Lei disse sì.
E così cominciò.
Tre sabati dopo, Loris pensò che forse le cose potevano tornargli utili.
Tecla – così si chiamava – non gli piaceva. Era insignificante. Ma lavorava, puliva, cucinava. E lo faceva gratis. La guardava muoversi in cucina, lavare i piatti che lui sporcava senza pietà. Una cameriera muta, obbediente. Perfetta.
Quella sera le disse:
«Se cucini qualcosa, resta anche a cena.»
Tecla sorrise, timida.
Lui pensò: Sto invecchiando. Meglio sistemarsi.
Durante la cena le fece domande, come un impiegato dell’Anagrafe.
«Sei sposata?»
«No.»
«Fidanzata?»
«Mai.»
«Famiglia?»
«Morti tutti.»
«Problemi di salute?»
«No.»
Perfetto.
Una sagoma grigia, senza radici, senza testimoni.
Bevve il caffè. La guardò.
«Ti va di darci del tu? Una passeggiata al parco domani?»
«A che ora passo a prenderti?» disse lei. Con voce piana.
Tre mesi dopo, si sposarono. Un sabato mattina. Due testimoni scelti a caso. Cena in un ristorante mediocre. Nessun brindisi, nessuna emozione. Rincasarono presto.
Tecla si attardò in salotto. Loris andò in camera.
Aveva pagato prostitute per anni. Ma quella notte… quella era sua moglie.
Entrò. Si bloccò.
Lei era sul letto. Completamente nuda.
Seni grossi. Cosce aperte. Una luce calda disegnava la carne. I capezzoli sembravano occhi distorti. Il sesso, una bocca spalancata.
«Ti aspettavo, Loris» disse.
La voce era diversa. Più profonda. Più decisa.
Si avvicinò. Lei lo prese, lo guidò dentro di sé. Senza dolcezza.
Era come sprofondare in una fossa calda e viva, che lo inghiottiva e lo tratteneva.
Lui non controllava nulla. Lei sì.
Quando venne, lei si liberò, si voltò su un fianco e mormorò:
«Buonanotte.»
Lui restò sveglio. Pensava: Tutte uguali. Anche lei. Anche lei è come quelle là.
I mesi dopo furono una discesa.
Casa sporca. Cena fredda. Lei che parlava sempre meno. Lui che si lamentava. Un giorno glielo disse, a muso duro.
E Tecla esplose. Urlò. Lo insultò. Gli disse che se non gli andava bene, poteva andarsene affanculo.
Lui restò pietrificato.
Quella donna – quella larva – gli stava sputando in faccia.
La casa non era più la sua. Le stanze avevano odore di lei. I mobili erano stati spostati. Loris si sentiva ospite. Invisibile.
Poi venne il giorno.
Tecla, appoggiata alla finestra, guardava fuori.
Disse, senza voltarsi:
«Non so perché ho sposato uno come te. Sei più inutile di uno stupido, schifoso insetto.»
Loris si illuminò.
Capì.
Tecla era l’insetto. Non lui.
La prese per le gambe e la spinse. Senza urlare. Senza dire una parola.
Guardò il suo corpo precipitare. Un volo breve. Un tonfo secco.
Scese. Si avvicinò alla testa.
Ruotò con forza la punta della scarpa, come quella mattina.
Solo per essere certo.
Nessuno vide nulla.
@gennaio2010