A Tecla le feste non sono mai piaciute.
Troppa gente. Troppa allegria forzata. Troppa superficialità che si spalma addosso come un rimmel andato a male.
Eppure quella sera c’era. Più bella del solito, un vestitino bianco abbastanza corto, anche se le rotondità del suo corpo non lo permettevano, lei si sentiva bene e se ne fotteva.
Festa di compleanno di una collega di un’amica di un conoscente. Non ricordava più il perchè di quella festa. Uno di quei party dove tutti fingono di conoscersi, dove tutti sghignazzano come oche giulive e ballano come se stessero cercando di esorcizzare qualcosa che non hanno il coraggio di nominare.
Tecla era lì, nel mezzo, con un bicchiere di plastica pieno a metà e la sigaretta spenta tra le dita.
Tutti ballavano. Quei balli di fine serata o peggio di fine anno, quelli idioti, da karaoke, magari per immortalare un video su TikTok, da branco che ha perso il cervello tra un mojito e uno spritz.
Tecla no.
Lei ballava da sola. Lenta. Sinuosa. Come se la musica che sentiva fosse solo sua.
La sentiva dentro.
Ballava sulle note blues della chitarra di Jeff Beck, Cause We’ve Ended as Lovers.
L’assolo che ti si infila nelle ossa e non ti fa respirare. Quella chitarra che ti sventra il cuore e ti fa muovere come se stessi facendo l’amore coi fantasmi.
Tecla seguiva quella musica.
Il resto era solo rumore di fondo.
Gli altri la guardavano.
Alcuni incuriositi.
Altri infastiditi.
Le donne, soprattutto. Quelle “tutt’ossa”, tirate, col culo finto alto, il mascara impermeabile e le labbra a culo di gallina.
La giudicavano.
Lo facevano da sempre.
Da ragazzina Tecla era considerata “quella grassa”. Quella con le cosce troppo grandi, le tette troppo vere, il culo voluminoso, quella dal sorriso troppo sincero.
Se la mangiavano viva. Le altre ragazzine. Le peggiori. Perché le donne, tra loro, sanno essere bestie. Predatrici di emozioni, giudici spietate del corpo altrui.
Più crudeli dei maschi. Perché più intime. Più addestrate alla guerra tra simili.
Ma Tecla non era morta.
No.
Tecla era cresciuta.
E da bruco impastato di vergogna era diventata una farfalla, un pò in carne ma riusciva a volare. Aveva imparato piano piano ad amarsi.
Aveva fatto l’amore con chi e ovunque, riso, pianto, ballato nuda nei salotti degli altri, fumato erba e tirato cocaina da sola nel letto, dormito con uomini, donne, e mostri vari.
Aveva capito che l’amore più difficile è quello per se stessi.
E lo aveva conquistato.
Ora si piaceva.
Ora finalmente si amava.
Tecla era narcisista, sì. Ma era un narcisismo feroce, liberato. Uno che non chiede scusa.
Tecla ad un certo punto si sedette.
Si era tolta le scarpe, le odiava, quelle cazzo di scarpe col tacco. Rimase a piedi nudi.
Un uomo si avvicinò. Non era bello. Non era brutto. Era… altro.
Uno che stava nel mondo di lato. Come lei.
Parlarono. Birre, chiacchiere, silenzi. Lui non la guardava come fanno gli altri, puntando le tette o l’orlo troppo alto della gonna. La guardava negli occhi, nelle mani. Ma non come fanno i classici romantici. La guardava dentro, come se volesse scoprire cosa ci fosse dietro quella voce roca dal troppo fumo e i suoi gesti da puttana sacra.
A un certo punto, dopo la terza birra e mezzo sorriso, lui le disse:
“Tu puoi volare. Lo sai, vero?”
“Volare?”
“Sì. puoi farlo, basta volerlo. Senza peso. Senza gravità Senza dover essere vista. Tu puoi guardare tutti. Ma nessuno vedrà te.”
Tecla lo fissò come si guarda un ebete. Poi scoppiò a ridere. Di quelle risate grasse, vere, di pancia. Liberatorie.
Lui no. Lui restò serio. Poi si alzò. E sparì. Così, senza dire altro.
Nessuno seppe mai chi fosse.
La mattina dopo, Tecla si svegliò molto presto e quella frase che gli martellava nella testa.
“Tu puoi volare.”
Le risuonava come una nenia, come una litania.
Il letto era freddo. Il cielo, fuori, grigio.
Aprì la finestra. Era nuda, non portava nulla addosso. Amava stare nuda per casa. Con la pelle d’oca e il cuore che batteva come un tamburo tribale.
Salì sulla ringhiera della finestra.
La città le si stese davanti agli occhi, sporca e rumorosa come sempre. Pensò: “Se cado, muoio e amen. Se, invece volo…meglio.”
E si buttò.
Ma non cadde.
No.
Tecla adesso volava. Volava davvero. E rideva. Rideva come una pazza felice e allo stesso tempo isterica ma felice.
Faceva capriole, si librava tra i palazzi, si infilava tra le nuvole. Faceva l’amore con loro. Godeva dell’aria fredda che gli scivolava nella pelle.
Rideva. Urlava.
Era nuda e viva.
Da lassù vedeva tutto. Gli uomini incastrati nelle loro maschere quotidiane. Nelle loro macchine ai semafori a guardare le gonne stiracchiate dal vento.
Le donne che si massacrano a colpi di finta perfezione. I ragazzi che si perdono dietro ai smartphone con quelle dita impazzite. Le coppie che non si toccano più. Le solitudini camuffate da allegrie.
Nessuno la vedeva.
Ma lei vedeva tutto.
E si sentiva libera. Finalmente. Una dea senza tempio. Una puttana celeste che rideva in faccia alla gravità e al mondo intero.
Tecla volava sopra i tetti, dove vanno a dormire i gatti, sopra le antenne smorzate, sopra le scuole, sopra le mamme che aspettano i figli e mentre guardano i padri.
Volava sopra i palazzi, i balconi con i panni stesi e tante vite sprecate. Volava sopra gli uffici pieni di gente che finge di lavorare. Sopra i bar, sopra i funerali e le loro grandi verità. Sopra i centri estetici e i centri commerciali.
Guardava.
E capiva tutto. Adesso tutto era più chiaro.
Vedeva le donne che si odiavano in silenzio dietro sorrisi tirati a lucido.
Gli uomini che si fingevano forti e poi si sbriciolavano in bagno, con l’acqua aperta per non farsi sentire.
Vedeva gli amanti che non si amavano più ma facevano l’amore lo stesso per non sentire il vuoto dentro.
I padri che non sapevano di essere padri o peggio non lo erano mai stati.
Le madri vuote. I “ti amo” stanchi. I “per sempre” che duravano poco meno di un mese. Vedeva la menzogna travestita da verità, quella verità che nessuno aveva il coraggio di svelare.
E da lassù, nuda come una santa ubrica, Tecla sorrise.
“A fanculo,” sussurrò.
“A fanculo tutte le vostre verità, i vostri giudizi, i vostri “così si fa”. A fanculo tutte le vostre verità, i vostri ruoli, i vostri giudizi, i vostri così si fa.
E da lassù, nuda come una santa ubriaca, Tecla sorrise.
“A fanculo la bellezza senza carne, le anime senza sudore, le frasi di merda che postate su Instagram.”
“A fanculo chi non sa ballare da solo, chi ha paura del silenzio, della solitudine, chi ha smesso di toccarsi. A fanculo tutto questo circo, elegante e disperato.”
“io volo.”
“E volo via.”
Nessuno la vide più. Forse di dissolse nell’aria. Forse si trasformò in musica. Quella che lei amava. Forse andò a ballare altrove, su qualche altro letto, su un altro cielo.
O forse è ancora lì.
Sopra le nostre teste. Che guarda, che ride. Che ci manda elegantemente a fanculo.
E intanto le note blues di Jeff Beck in Cause We’ve Ended as Lovers danzavano insieme a Tecla e le nuvole.
In culo al mondo.
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