(parte 1)
Comincia sempre così.
Sempre allo stesso, fottuto e bastardo modo.
Prima senti qualcosa. Un fruscio. Un passo.
Avete mai sentito un piede minuscolo, tipo quello di un insetto che cammina sulla vostra testa?
No?
Be’, io sì.
Cammina in cima al cranio, avanti e indietro, avanti e indietro… tic-tac-tic-tac. Sembra quasi di impazzire, anzi, ci si impazzisce proprio.
Non lo vedi mai. Ma c’è.
Lui è lì.
Lui è Clean.
Provi a passarti la mano tra i capelli, a scorticarti il cuoio capelluto, a premere la testa come per schiacciare un pensiero, cacciarlo via. Ma niente. È troppo veloce. Salta. Si contorce. Si infila tra i fili dei tuoi capelli come un verme invisibile.
Non puoi ignorarlo. Se cerchi di ascoltare, parla. Se cerchi di non ascoltare, ti urla contro.
Scivola lungo il tuo cervello e ti sussurra nell’orecchio. Parole strane. Anche dolci. Parole sporche. Lo senti: è freddo. Minuscolo. Incollato alla nuca. Ha artigli che non fanno male, ma lasciano graffi che colano sangue. Un rigagnolo sottile, silenzioso, costante.
E ti parla.
Ti parla quando non vuoi. Ti parla anche quando dormi.
E se ascolti quello che dice… sei fottuto.
Ma tanto lo sai: alla fine, lo ascolti.
Appena lo fai, lui ti accarezza il cervello, come se sapesse che sei pronto.
Lui è astuto. È vecchio. È nato da un patto che non ho stretto io, ma che mi porto addosso come una maledizione.
All’inizio ho provato a resistere. Giuro.
Ma Clean è persuasivo. Ti promette mondi. E ti porta via.
Quando faccio quello che vuole, mi lascia dormire in un’altra realtà, dove tutto è silenzioso e perfetto. Dove non c’è nessuno a giudicarmi.
Dice la gente che sono povero, che vivo in una baracca a ridosso del fiume, che non ho un euro. Ma Clean mi dà un altro tipo di ricchezza. Mi fa sognare donne, mi fa toccare carne che non esiste.
Sesso. Potere. Delirio.
E tutto è vero, anche se nessuno ci crede.
Sì.
Uccido.
Uccido per lui.
A volte solo con le parole. Altre, con le mani. O con l’accetta. O con quello che trovo.
Clean sceglie.
Mi parla di chi devo eliminare. Mi descrive tutto: volto, vestiti, odore della pelle, traiettoria della camminata. È chirurgico.
«C’è un uomo basso, grasso, con la testa fiera. Si chiama Loris. Vestito marrone. Sta camminando verso la palude. Quando cala il sole sarà sotto il grande albero, vicino allo scarico. Tu sarai lì. Prendi l’accetta. Adesso. CORRI.»
E io corro.
(parte 2)
A volte gli chiedo: “Cosa mi darai, Clean?”
E lui non risponde. O meglio: risponde sognando. E io sogno con lui.
Una donna, una notte, una carezza sporca tra le gambe. Una mano sul mio petto. L’odore della pelle bagnata. Non è realtà. Ma non è nemmeno solo immaginazione. È altro. È quello che resta quando tutto il resto è marcio.
L’ultima volta mi parlò mentre stavo mangiando una zuppa di fagioli scaduta, roba color carne morta.
Sussurrò:
«Sta arrivando una ragazza. Tecla. Bellissima. Vestita di nero. Capelli castani. Corpo perfetto. Ha una macchina guasta a ridosso del fiume. Verrà a bussare alla tua porta.»
Pensai fosse un sogno erotico come sempre. Ma non lo era.
«Porta con sé la chiave inglese. Uccidila con quella.»
Mi ribellai. «No, Clean. No, cazzo! Non voglio farlo!»
Lui rise. Una risata da bambino cattivo.
Poi minacciò. Disse che l’avrebbe fatto a me. Che mi avrebbe graffiato il cuore, gli occhi, il cervello.
«Meglio lei che te,» sussurrò.
Crollai.
«Va bene. Lo farò.»
Poco dopo bussò. Proprio come aveva detto. Bella. Troppo bella. Vestita di nero. Capelli neri come l’inferno.
Mi chiese aiuto. Io presi la chiave.
Andammo alla macchina. Era lì, quasi immersa nel fiume.
Clean mi guidava: «Ora. Sul collo. Non rovinare i capelli però.»
Colpi secchi.
Poi l’accetta.
Poi il fiume.
Il corpo lo gettò nella acque sporche del fiume, la chiave s’inabissò con lei.
Clean mi disse di togliermi le scarpe. Lo feci.
Poi mi parlò ancora. Ma io già stavo scivolando nel suo mondo.
Sprofondai nel sonno.
E Clean corse a prendere la sua ricompensa.
Non so quanto dormii. Ma quando mi svegliai… capii che c’era qualcosa che non andava.
Qualcuno bussava.
Clean dormiva.
E senza di lui… io sono solo un uomo con un corpo stanco e una testa troppo piena di pensieri.
Aprii la porta.
Era Luca. Un vecchio sbirro del commissariato di zona.
«Andiamo, Seth. Ti porto in ufficio. Sei in arresto.»
Lo seguii in silenzio. Non avevo scelta.
Clean dormiva. Pulito, silenzioso, incollato alla mia testa come una crosta fredda.
Luca parlava. Parlava troppo. Disse: «Abbiamo trovato le tracce delle ruote dell’auto fino al fiume. Quella donna, Tecla, doveva passare di lì.»
Dannazione.
Clean aveva dimenticato le ruote. Le ruote, cazzo.
Mi portarono al commissariato. La gente urlava fuori.
«Assassino!»
«Mostro!»
«Datecelo!»
Donne con le facce gonfie, uomini con la bava. La folla è peggio di Clean, a volte.
Ma Luca mi protesse.
Mi chiusero in una cella. Ero solo.
No, non del tutto: Clean era lì. Addormentato. Innocente.
Poi arrivò un medico.
Silvestro, si chiamava.
Piccolo uomo con una barba da prete di campagna.
«Parlami, Seth.»
Parlai.
Gli raccontai della mamma, dei filtri, delle erbe raccolte di notte, della pentola. Di quando Santiago pugnalò mia madre perché lei aveva fatto un filtro d’amore per sua figlia.
Gli raccontai che dopo quell’omicidio Clean restò con me.
Che era stato lei a portarlo a casa, con un patto.
Avevo solo dodici anni. Mi prese il sangue. Lo sigillò. Fece il rito.
Clean entrò in me. Per sempre.
Pensavo che il dottore capisse. Ma era come tutti gli altri. Ascoltava con la faccia finta, ma gli occhi…
Gli occhi mi dicevano: Sei pazzo.
Mi fece mille domande. Voci, visioni, quanti ne ho uccisi, dove sono le teste.
Mi chiusi in me stesso. Non dissi più una parola.
Mi chiusi come un’ostrica.
(parte 3)
Il dottore Silvestro se ne andò scuotendo la testa, con quella barbetta da ciarlatano triste e il ghigno finto.
Pensava di avermi capito. Non aveva capito un cazzo.
Clean non si capisce. Clean si sente. Clean si subisce.
Io tornai a dormire.
Mi svegliò una voce nuova.
«Ciao Seth.»
Era un uomo.
Faccia piena, occhi brillanti. Uno di quelli che sembrano buoni. Ma la bontà, lo sai, spesso è solo un altro modo di prendere tempo prima di sbranarti.
«Eduardo Cassio,» disse. «Sono l’avvocato. Posso entrare?»
Io alzai le spalle.
Lui entrò. Aveva già la chiave.
Si sedette sulla mia branda, accanto a me, come se ci conoscessimo da sempre.
«Non hai paura che ti uccida?» gli chiesi.
«No, Seth. Io so che tu non volevi farlo.»
E mi toccò la spalla. Una mano morbida, calda. Indossava un anello con diamante.
«Com’era Clean?»
Sobbalzai.
«Il dottore me ne ha parlato. Ma lui non capisce. Io sì, invece.»
Mentiva.
O forse no.
Forse era solo curioso. Troppo curioso.
Mi guardava come si guarda un miracolo marcio. Come si guarda una piaga che brilla.
Mi offrì una sigaretta. Rifiutai.
Mamma non ha mai voluto che fumassi.
Eduardo Cassio annuì.
«Puoi essermi utile, Seth. Al processo, parlerò io. Ma devi raccontarmi tutto. Solo a me.»
Guardai la mia testa.
Clean dormiva ancora.
Annuii.
E parlai. Gli dissi tutto. Delle vittime. Dei corpi. Del fiume. Dei nomi che ricordavo. Delle teste mozzate.
Cassio ascoltava. Fissava.
Poi chiese:
«Dove sono le teste?»
Mi voltai.
«Non lo so. Clean le vuole. È l’unica cosa che vuole davvero. Io le taglio. Le lascio lì. Poi torno a casa. Dormo. E lui se ne va. Va da loro.»
«Perché le vuole?»
«Perché le mangia. O ci fa altro. Non so. Ma è la sua parte. È il suo bottino. Io non posso impedirglielo.»
Cassio restò zitto.
Sudava.
Gli tremavano le mani, appena appena.
«Parlerai di questo al processo?» chiesi.
Scosse la testa.
«No. Nessuno crederebbe che Clean esiste. Penseranno che sei pazzo.»
Io sapevo che non lo era.
Ma Cassio voleva sembrare furbo. E quando un uomo vuole sembrare furbo, sbaglia quasi sempre.
Poi disse la frase.
La frase che cambiò tutto.
«Seth… dammi Clean.»
Lo guardai.
Sorrise. Ma aveva paura.
«Dammi Clean. Durante il processo. Me ne prendo cura io. Tu potrai dimenticarlo. Nessuno dovrà sapere nulla. Tu neghi tutto. E Clean sarà con me.»
Sussurrai:
«Devo chiedere a lui.»
«Sta dormendo, no?»
«Sì. Forse potete vederlo. È in cima alla mia testa.»
Cassio lo guardò. Sorrise ancora.
«Gli parlerò io. Gli spiegherò. Lo farò stare bene. Non preoccuparti, Seth.»
Ci pensai. Poi feci un cenno.
«Va bene. Ma trattalo bene. Non metterti il cappello. Non gli piacciono i cappelli.»
«Promesso.»
Mi voltai verso l’alto, verso il punto dove sentivo il suo corpo minuscolo appollaiato tra i capelli.
Sussurrai: «Vai, Clean. Vai dal signor Cassio. Ora.»
E lo sentii.
Quel peso che scivola via. Quel sollievo che punge.
Clean lasciò la mia testa.
Se ne andò.
Cassio rimase immobile.
Poi disse:
«Lo sento. Lo sento, Seth.»
E uscì.
Rimasi da solo.
Passai la mano sulla testa.
Vuota.
Silenziosa.
Per la prima volta dopo tanti anni… ero solo.
Guardai la luna.
Clean adorava la luna. Gli faceva venire fame. Fame vera. Mi chiesi come si stesse comportando con Cassio.
(parte 4)
Era notte.
La luna mi fissava come una madre che non perdona.
Mi sentivo… strano.
Vuoto. Sgonfio. Pulito.
Clean non c’era più.
Era con Eduardo Cassio.
Mi aggirai nella cella, come un cane che ha perso l’odore. Passai la mano tra i capelli. Nessun graffio. Nessun peso. Solo silenzio.
Poi… rumore. Una porta che si apre. Un passo. Due. Poi… corsa.
Cassio entrò. Gli occhi fuori dalle orbite. Le mani sulla testa.
«Toglilo da me!» urlò. «Toglilo!»
Io lo guardai. Sereno.
«Perché, avvocato? Ve l’avevo detto com’era Clean.»
Cassio si grattava la testa come un dannato.
«Lo sento! Sta camminando… avanti e indietro… sulle mie tempie! Parla! Mi dice cose!»
«E allora ascoltatelo,» dissi. «Vi ha detto chi dovete uccidere?»
«Non voglio! Non voglio farlo!»
Cominciò a piangere.
Poi sussurrò:
«Silvestro. Mi ha detto di uccidere il medico. Di tagliargli la testa. Non posso… Non posso farlo…»
Si accasciò contro le sbarre della cella. Tremava come un sacco vuoto.
Io lo osservavo.
In silenzio.
Poi mi voltai verso la luna.
Clean stava cominciando. Lo sentivo. Lo sapevo.
Cassio gemette. Poi si ammutolì.
Un suono, basso, denso.
Un gorgoglio.
Oh sì. Quel gorgoglio. Quello che Clean fa dopo aver mangiato. Soddisfatto. Felice. Un maiale.
Poi venne il raspare. Gli artigli, minuscoli, allegri. Saltellavano sulla carne di Cassio.
Clean danzava. Pulito. Libero. Vorace.
Io sorrisi. Era tornato a casa.
Presi le chiavi dalle tasche dell’avvocato e aprì la cella.
Non c’era nessuno.
Nessuno ci guardava. Nessuno immaginava che il pazzo stesse uscendo tranquillo, con il cervello pieno di risate.
Clean era di nuovo con me.
Lo chiamai.
«Qui, Clean.»
E lo sentii.
Quel freddo leggero, quel passo felice, quel sussurro sporco.
Clean era tornato.
E mi accarezzava il cranio come una madre tossica.
Attraversammo il corridoio. Aprii il portone. Uscimmo. La luna splendeva. L’aria sapeva di ferro e libertà.
Camminammo nella notte.
Clean rideva.
Io ridevo con lui.
E finalmente… eravamo di nuovo noi.
@gennaio2020 – 2025