Cinque maledetti anni

Cinque maledetti anni

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(Le storie d’amore vere non finiscono mai)

Erano passati cinque anni. Cinque maledetti anni.
Se ne rese conto solo allora, mentre lei parlava, come se niente fosse.
Il suo viso era cambiato. Non era più la ragazzina di allora. Adesso era diventata una donna. E qualsiasi cosa l’avesse portata fino a quel momento, l’aveva fatto senza di lui.
Era cresciuta. Punto. Senza di lui. Punto e basta.

Ricordò le promesse da adolescenti: bigliettini pieni di cuori e poesie ridicole, quelle frasi appiccicose e patetiche  tipo “sogni d’oro”, e la gara dei dementi del “attacca prima tu”.
E il primo bacio, al tramonto, su quel belvedere di Termini Imerese, tra lacrime e tremori.
Gli si strinse qualcosa nello stomaco, qualcosa che aveva il sapore del ferro e della nostalgia.
«Non succederà niente in un minuto, no?» provò a dire.

Tecla lo guardò con quella vecchia smorfia che usava ogni volta che sentiva parlare di orari.  «Il tempo è una gabbia, Loris. Lo dicevo sempre.»
«Non ci vorrà molto» insistette lui, con la voce incrinata.
«Il tempo cambia. Le cose cambiano. Tutto cambia. Che ti sorprendi a fare?»

Sapeva che non gli serviva un’ora per dirle quella cosa che non era mai riuscito a sputare, cinque anni fa, quando lei gli sbatté in faccia il famoso “cartellino rosso”.
Ma la vita, bastarda com’è, ci mise cinque anni a rimettergliela davanti.
Cinque fottuti anni.

«Non puoi pretendere che il mondo rimanga come lo ricordi» disse lei. «Il mondo cammina, corre, si evolve»
«Sei felice?»
«Sì.»
Lo disse senza pensarci, ma anche senza convincere nessuno. Come chi recita una parte imparata a memoria.

«Davvero? Felice?»
«Sì. E tu?»
Giocava in difesa, come sempre. Alcune cose non cambiano.

«Sì. Felice. Prospetticamente.»
Avrebbe voluto spiegare che, se guardava il presente, tutto sembrava a posto. Ma se allargava un attimo lo sguardo, infilando i “se” e i “ma” dove bruciava ancora, allora forse no.
Ma forse un cazzo. Sarebbe stato uguale.
Tecla continuava a giocherellare col suo orologio d’argento. Tic…Tac… lascia stare, Loris… tac.

Aveva ancora quelle mani. Quelle mani da pianista precario. Avrebbe voluto dirglielo. Ma lo spazio in quell’abitacolo era già troppo stretto per le parole inutili.
Violini.
Stupidi, patetici violini.

E il ricordo di lei, il profumo della pelle, la voce che gli scivolava dentro come un coltello immerso nell’olio, gli venne addosso tutto insieme, come una valanga calda.

Quello che sentiva, adesso, non era nostalgia. Era qualcosa di più sporco e più concreto. Aveva un nome, un peso. Qualcosa che non era evaporato coi mesi, né con gli anni.
Era diventato una massa compatta dentro lo stomaco, un fardello di bottiglie rotte che all’inizio lo laceravano, poi erano diventate parte di lui. Come una malattia cronica: ci convivi.

Aveva sbagliato. Sì, cazzo. Aveva sbagliato tutto.
E se lei lo aveva cacciato, aveva avuto tutte le ragioni di questo mondo.
All’epoca non capiva. Ma ora… ora era tutto cristallino.

Le avrebbe chiesto perdono. Ma era così bella, così intoccabile sotto quella luce fioca, che non ce la fece.  Non ebbe la forza. Vaffanculo.

Sapeva che non l’avrebbe più rivista.  E che, ormai, non contava più nulla. Avrebbe voluto ricordarla così, tra luce e ombra, come un’apparizione al confine del sogno. E quando scese dall’auto, non era lui. Era un altro. Uno che non aveva avuto il coraggio di difendere i suoi sogni.  Il vero Loris era rimasto dentro, seduto accanto a lei, muto. In silenzio.

«Avrei un milione di cose da dirti» avrebbe voluto dirle.
«Ma non stasera. Non così.»

Fece qualche passo.
Poi si voltò.

«Ricordi che non sono mai stato bravo con i discorsi faccia a faccia? Non sono mai riuscito a guardarti veramente negli occhi?»
Tecla non rispose. Ma i suoi occhi dicevano tutto.
Poi:

«Loris!» urlò. «Sei uno stronzo! sei una merda!»

Lui si fermò.
Sorrise.
Sincero. Pulito.
E tutto quel fardello, le bottiglie, le macerie, gli anni, si dissolse.
Rivide il motorino che tossiva in salita, le scritte incise sulle panchine, i tramonti infiniti e i silenzi che erano diventati abissi.

Era il momento perfetto per dirle tutto.  Le parole erano lì, allineate, pronte.
La bocca si aprì.

Ma niente. Silenzio. Solo lo scirocco che spettinava.

Capì.
Capì che lei sapeva tutto. Che lo aveva già capito.
Tecla lo aveva condannato, una volta. E ora sarebbe stato inutile.

Tornò in mente una frase, una di quelle frasi da diario, da film. Forse l’aveva scritta proprio lui, un giorno in cui le nubi colavano zucchero:

“Un palazzo brucia. Tutto ciò che resta è cenere.
Un tempo pensavo che questo valesse per tutto:
famiglia, amici, amore.
Ora so che niente separa due persone fatte per stare insieme.”

Capì. Che erano separati dalla distanza minima di un abbraccio impossibile.  Che forse non si amavano più.  Ma che qualcosa li avrebbe legati per sempre.

I ricordi.  Il profumo dell’erba d’estate. La cicatrice per salvare un gattino stupido.
Le note di “Cowgirl in the Sand” di Neil Young.
Il 1987.
Tutto.
Nulla cancellabile. Nulla da voler cancellare.

«Buonanotte» disse.

Tecla cercò di trattenere le lacrime.  Loris si voltò, camminò verso il cancello. Aveva gli occhi lucidi, sì.  Ma era solo il vento contrario. Non piangeva, il nostro caro vecchio Loris.
Era solo vento del deserto.

2010 / 2025