Le nuvole scure sopra Palermo spesso non se ne vanno mai. Anche quando c’è il sole, sembrano restare lì, a ricordarti che la luce, in fondo, è solo una tregua temporanea. Una città devastata, illuminata, malinconica. Lo Stupor Mundi è sempre stata così: contraddizione pura.
Porzia osservava la città dalla finestra del suo piccolo appartamento nel centro della città. Avvertiva un’angoscia sorda, indefinita. Ogni giorno si svegliava con il cuore gonfio di un desiderio che non sapeva nominare: forse fuga, forse libertà, forse solo il bisogno di smettere di sentirsi estranea a sé stessa. Le vie di Palermo le erano familiari, ma anche opprimenti, come se a ogni passo le ricordassero le catene invisibili che la legavano a una vita che non sentiva più sua.
Era figlia di genitori separati, eternamente in guerra. Le urla, le porte sbattute, i vetri rotti erano la colonna sonora della sua infanzia. Quel rumore continuo aveva scavato in lei un vuoto profondo, un’incertezza permanente. Cercò conforto nell’analisi, ma ogni seduta finiva col rovistare dentro il suo dolore, senza mai risolverlo. Solo scomporlo, come si fa con i cadaveri nei laboratori di anatomia.
Anche Loris era un prigioniero. Figlio unico, non aveva mai conosciuto i suoi genitori. Cresciuto in un orfanotrofio, tra preti e suore freddi come la pietra, imparò presto a non aspettarsi niente. Era solo un numero, una pratica, un’ombra tra tante. Ogni giorno era una guerra muta per conservare un po’ di dignità, un briciolo di speranza. Quando l’orfanotrofio diventò intollerabile, scappò.
Si ritrovò a lavorare in una libreria polverosa nel centro storico. Lì viaggiava, evadendo pagina dopo pagina, tra storie di fughe e di vite mai vissute. Conobbe Porzia tra quegli scaffali dimenticati. Lei cercava un volume di Baudelaire. Lui glielo trovò. Fu uno sguardo, forse due, ma bastarono. Affinità elettive: quelle rare, che non capitano due volte nella stessa vita. Entrambi cercavano qualcosa che quella città non poteva più offrirgli.
Loris, frustrato, sentiva che la vita da libraio stava lentamente diventando un’altra gabbia. Sognava di scrivere la sua fuga, di raccontarla, ma le parole gli restavano in gola come spine.
“Dobbiamo andarcene,” disse Porzia una sera, mentre camminavano lungo la spiaggia di Mondello. Il vento portava l’odore salmastro del mare, come un presagio.
Loris la guardò. Lo sguardo era grave, stanco. “Non possiamo continuare così. Senza speranza.”
Porzia fissò l’orizzonte, poi i suoi occhi. “Sì, hai ragione. Ma dove andiamo? Cosa facciamo?”
Ogni parola era un peso che Loris portava da anni. “Non lo so, Porzia. Ogni giorno è una prigione. I libri non bastano più. Ho bisogno di credere che ci sia qualcosa là fuori che valga la pena vivere.”
Lei gli strinse la mano, forte, come se da quella stretta dipendesse tutto. “Ovunque. Purché sia lontano da qui. Questa città ci sta uccidendo, lentamente. Ma se siamo insieme, forse possiamo salvarci.”
Lui annuì, con una lacrima che gli scivolò lungo la guancia. “Hai ragione. La libertà non è un luogo, è uno stato d’animo. Rimanere significa morire un po’ ogni giorno. Andarsene, almeno, è una possibilità.”
Porzia lo abbracciò. Sentiva il suo corpo tremare. “Partiamo. Non importa dove. Non importa come. Ma insieme. Solo insieme potremo respirare davvero.”
La decisione fu presa. Le settimane successive furono un susseguirsi di preparativi silenziosi, addii non detti. Non avevano legami forti da spezzare, eppure lasciare Palermo era come amputarsi una parte dell’anima.
Il giorno della partenza, il cielo era ancora coperto. Le nuvole scure sembravano volerli trattenere, come un ultimo monito. Ma Porzia e Loris non si voltarono. Salirono su un treno diretto verso nord. Meta: Capo Nord. Una fuga estrema, simbolica. Il punto più lontano. Il sogno di un nuovo inizio.
E mentre il treno si allontanava, lasciando dietro di sé la città e le sue ombre, Porzia e Loris si strinsero l’uno all’altra. Non scappavano solo da Palermo. Scappavano dalle gabbie invisibili che per anni avevano tenuto chiusi i loro cuori.
G.L. 1giugno 2024