Non mi volto

Non mi volto

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Se ne andava così. Senza voltarsi.

Tacchi alti, gambe lunghe e anima a pezzi, la giacca buttata sulla spalla come una vecchia promessa mai mantenuta.

  Camminava sull’asfalto come se fosse un campo pieno di mine inesplose,ma non aveva paura. Ora non più.

La schiena semi nuda e quelle frasi tatuate sulla schiena, era una dichiarazione di guerra, non di seduzione. Era il suo modo per dire:

  «Guarda dove mi hai colpita. Non ti sei neanche accorto che sanguinavo da tempo.»

Lei camminava sola, ma dentro era un groviglio di voci. Una in particolare. La sua.

— Sei davvero convinta? Davvero pensi che questa volta ce la farai?

— Non si tratta di farcela. Si tratta di salvarmi ancora una volta.

— E da cosa? Da lui?

— Da me stessa. Sono sempre stata io il problema di me stessa.

— Ah, quindi adesso fai pure la vittima?
— No. Io ero il carnefice.

— Sempre troppo severa.

— Sempre troppo cieca per guardare in fondo la verità.

Aveva passato anni a farsi piccola, a stare in un angolo, a indossare sorrisi che odoravano di rassegnazione, a confondere l’amore con la sopportazione. Aveva lasciato che le scavassero dentro, che si prendessero tutto: la voce, il tempo, il desiderio.

E adesso, mentre i tacchi segnavano il ritmo sincopato del suo addio, lei si faceva il processo.

— E se poi ti penti?

— Mi sono già pentita di restare.

— E se ti manca?

— Allora ricorderò quanto mi faceva male.

— E se domani sarà peggio?

— Allora sopravviverò anche al peggio. Ci sono abituata.

Si era portata via tutto ciò che poteva contenere nel silenzio. Il resto l’aveva lasciato lì,
a marcire con le scuse non dette, con i «Ti amo» bugie sussurrate solo a letto, con le carezze come abitudine, con l’odore di lui sulle lenzuola, sul suo corpo, che ormai sapeva solo di disprezzo.

Non si voltava. Non perché fosse forte. Ma perché non sapeva cosa avrebbe fatto se avesse visto la porta di casa. O peggio: se l’avesse vista aperta.

Dentro di lei si agitava il peggio.
  Un urlo muto.

  Un nodo in gola vecchio di anni.

— Non ti manca nemmeno un po’?

— Mi manca l’illusione di un’altra vita.

— E allora torna.

— No.

— Perché?

— Perché questa volta, se torno, mi perdo. E io non voglio più sparire.

Arrivò al ciglio della strada, al limite tra la sua pelle e tutto ciò che ancora non conosceva. E lì, per un istante, pensò davvero di crollare. Di sedersi per terra. Di piangere tutte le lacrime nascoste negli anni. Ma non lo fece. Perché il baratro che aveva davanti era meno spaventoso di quello in cui aveva vissuto fino ad allora.

Era lì, sola, distrutta, libera. E quel vuoto nel petto, quello che sembrava una condanna,
cominciava a respirare.

  A pulsare.

  A dire: «Ancora un passo. Uno solo. Dai e sei fuori.»

Faceva male. Un male bastardo, sordo, intimo. Ma era un dolore giusto. Finalmente.

Lei non si voltava. Perché sapeva che indietro non c’era più niente. E davanti, anche se non sapeva cosa ci fosse, per la prima volta, le sembrava che potesse esserci lei.

G.L. Maggio 2025