L’occhio di bue

L’occhio di bue

Al momento stai visualizzando L’occhio di bue

(monologo teatrale)

(Al centro della scena una sedia, un tavolino in legno a tre piedi, una bottiglia di

cognac mezza piena, un bicchiere sporco, una sigaretta accesa poggiata su un

posacenere di vetro pieno di cicche. Davanti all’uomo, il teatro pieno e tutte le file

delle poltrone occupate solo da sagome di cartone. Una luce, l’unica luce sopra

all’uomo, al centro del palcoscenico)

Allora…

iniziamo dall’inizio.

Altrimenti sembra che le cose accadono all’improvviso.

E invece no!

Tutte le cose marciscono piano.

Come il pane lasciato sul davanzale per le colombe, che aspettano giorni e giorni e intanto ammuffisce.

Come l’anima prima di lasciare il corpo ormai in decomposizione.

Sono nato in un giorno d’estate, in una stanza d’ospedale dove tutti sudavano

tranne me. C’era un prete, una pistola e tante lacrime, ma io avevo già il

gelo addosso.

E sopra di me, questa cazzo di luce. Una specie di occhio di bue, sapete… come

quelli che si usano in teatro.

L’occhio di bue.

Nessuno lo vedeva. Nessuno l’ha mai visto, nessuno mi ha mai creduto.

Solo io.

E forse Dio, se ha ancora voglia di guardare.

Tutta la vita sotto questa luce.

Che non riscalda.

Che ti scruta.

Che ti dice: “Sei colpevole.”

Ma non ti dice di cosa.

Capite cosa significa?

Vivere sentendosi sempre colpevole senza conoscere la condanna?

È come camminare per tutta la vita con una croce pesante al collo.

E ti vergogni.

E ti odi.

E sorridi, ma non sei mai davvero lì. Dove vorresti essere.

Io ci ho provato sapete… a fare il bravo. Ma qualcosa mi diceva sempre che ad essere bravi non ci si guadagna nulla.

E avevano ragione!

Sono stato anche marito. Padre.

Lavoratore.

Il grande lavoratore. “stakanovista, sei l’unico che non stacca per la pausa pranzo” mi dicevano! Tutti scappavano ad ingozzarsi di schifezze ed io rimanevo da solo con i miei pensieri e scrivevo…

Una gabbia. Ma con tende carine, con i gerani mai annaffiati.

E non potevi scappare.

Mia moglie, Porzia, mi guardava ogni sera come si guarda una porta chiusa:

sperando che, un giorno, qualcuno la aprisse da dentro.

Ma io…

non ci riuscivo. Non ho mai trovato le chiavi.

Dentro non c’era niente da mostrare.

Solo quella luce che nessuno vedeva. Nessuno voleva. E il buio attorno.

I figli crescevano.

Io no. Quasi tornavo indietro, peggioravo.

Loro ridevano. Io no. Ero sempre serio, al limite mi facevo qualche risata quando

nessuno mi guardava, quando nessuno cercava di giudicarmi.

Mi dicevano “Pà, sei stanco?”

No.

Ero finito. Ero un cadavere in prestito.

E io, che volevo fare il pompiere…(ride)

Sapete cosa significa?

Non è il fuoco in sè. È l’idea stessa di salvare.

Salvare gli altri per non dover guardare dentro.

Ma invece mi sono seduto dietro una scrivania.

A scrivere ore, ore, ore e perdere anni. Non ho mai capito cosa cazzo scrivessi ma

dovevo farlo.

E poi, come ogni uomo che sente il verme dentro… ho iniziato a cercare una via

d’uscita. Una specie di “carriola” come diceva Pirandello.

Le donne.

Quelle senza storia. Senza nome. Quelle con l’acqua tra le gambe.

Quelle che ti guardano come se tu fossi vivo, per almeno cinque minuti.

Ma poi…

poi quella luce mi accecava ogni volta.

E allora a quelle donne le toglievo il respiro.

Una alla volta.

Per pietà.

Per rabbia.

Per liberarmi.

E ogni volta, pensavo: “Ora si spegnerà.”

E invece restava lì.

L’occhio di bue.

Più bianco. Più feroce di prima. Come se quelle morti la rigenerassero.

E poi…

Porzia.

Lei dormiva. Non russava più da settimane ormai.

Si era spenta lentamente, come una sigaretta in un vecchio posacenere.

Quando le ho stretto il cuscino sul viso, non ha nemmeno lottato.

E allora ho capito che non era solo colpa mia.

Che anche lei era dentro quella maledetta luce.

Ma dopo, dopo sì.

Il buio.

All’improvviso.

La luce si è spenta.

Per la prima volta in quarant’anni…

niente luce.

Nessun giudice a giudicare, nessuna pena.

Solo me.

E allora ho pensato: ecco, ora puoi redimerti.

Ora sei libero.

(Sorride amaramente.)

Ma sapete una cosa?

La libertà fa schifo.

Fa più paura della condanna.

Perché sei tu a dover decidere cosa fare.

E io non sapevo.

Non ho mai saputo.

E adesso, sto qui.

Davanti a voi.

Voi, che non avete occhi. Non avete orecchie.

Non potete giudicare.

Ma io sì.

Io sento ancora la voce della luce, anche se non la vedo più.

Mi chiama. Mi chiede: “Hai capito adesso?”

No.

No che non ho capito.

Perché la colpa non si spiega.

Si vive. Si scava dentro. Ti divora.

E alla fine, ti lascia solo.

Redenzione?

Forse.

Ma chi redime un uomo che non sa dove ha sbagliato?

Chi perdona chi non ha chiesto perdono?

(Quasi urlando.)

Parlate!

Rispondetemi!

Coglioni!

Vi ho confessato tutto. Ho messo le mie viscere qui, sul palco.

E voi zitti.

Fermi.

Morti.

(Respira a fatica. Poi riprende, piano.)

Forse…

forse sono io la sagoma.

Sono io il fantoccio.

Un pezzo di cartone travestito da carne.

Con la voce di un mostro e il cuore di un bambino che voleva solo spegnere quella

luce.

E ora… ora non c’è più nulla.

Né luce.

Né Dio.

Né perdono.

Solo questa sedia.

E io,

che ci sto seduto sopra

come su una bara aperta.

(La luce si spegne di colpo. Buio. Rumore di un corpo che cade a terra. Silenzio)

G.L. maggio 2025