Scatti e momenti rubati della mia vita

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Avevo tredici, forse quattordici anni. Stavo in collegio-riformatorio da un pezzo ormai, a pochi chilometri da Palermo. Le giornate erano scandite da orari, regole, sguardi severi, passi in fila e bastonate gratuite. Eppure, ogni tanto, riuscivo a scappare da quel posto, non da loro, ma da tutto. E salivo.

Monte Cuccio era il mio rifugio. Non c’era bisogno di parlare con nessuno, non c’era bisogno di spiegare niente. Raccoglievo tre, quattro “scappati” come me e mi bastava arrivare in cima, sedermi su quel rudere, e guardare Palermo stendersi sotto di me come un pensiero sempre distante.

Il vento e il freddo mi entrava nelle ossa, mi tagliava il viso, ma non me ne fotteva niente. Stringevo le braccia al petto, non per paura, ma per tenere con me quel momento. Quel vuoto davanti a me non mi spaventava affatto. Anzi. Lo amavo. Era il contrario di quel posto fatto di finti preti e suore che di clausura non avevano nulla. Al contrario delle stanze chiuse e umide, delle campanelle, delle coperte tutte uguali e sempre piene di mosche. Qui ero io. Ero libero.

Ricordo che qualcuno mi urlava di scendere. Dicevano che era pericoloso. Ma io restavo lì. Me ne fottevo degli altri. Non era incoscienza, era felicità. Era l’unico posto dove sentivo che tutto aveva senso, che potevo respirare senza chiedere il permesso. E allora restavo ancora un po’. Perché anche se poi sarei tornato giù, anche se mi avrebbero rimproverato, anche se mi avrebbero obbligato a due ore di cassette con i ceci, nessuno mi avrebbe tolto quel pezzo di cielo che mi ero preso.

E in culo al mondo!

maggio 2025