L’ULTIMO NATALE

L’ULTIMO NATALE

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Era la notte di Natale, e Loris tornava a casa tardi, come al solito.

 Il lavoro lo tratteneva sempre oltre il necessario, anche in quei giorni di particolare festa, e lui si lasciava trattenere, senza opporre resistenza. Il Natale era un periodo dell’anno che lo aveva sempre infastidito. C’era qualcosa nel restare indietro, nel ritardare il ritorno, che gli sembrava più semplice, più consono alla sua natura.

Camminava con il passo stanco, le mani intirizzite nei guanti sottili. Le luci di Natale decoravano i balconi dei vicini, proiettando bagliori intermittenti sulla neve infangata del marciapiede. Quando giunse davanti alla porta di casa, si fermò un attimo a osservare il campanello. Era un gesto inconsapevole, un automatismo, come se, prima di entrare, avesse bisogno di un momento per prepararsi. Ma qualcosa lo colpì: un brusio ovattato proveniva dall’interno dell’abitazione. Non era il suono familiare della televisione accesa o della voce di sua moglie o dei figli. Era qualcosa di diverso. Più denso, più pieno. Un amalgama di risate, un chiacchiericcio, un tintinnio di bicchieri.

 Loris si avvicinò alla porta, appoggiò l’orecchio al legno. Dentro c’erano voci, tante, troppe. Alcune le riconosceva, altre no. Suo fratello, che non sentiva da anni, sembrava raccontare una delle sue storie con quel tono enfatico che gli era sempre appartenuto. Poi la risata di sua moglie, più alta e sincera del solito. E altri suoni, altre presenze. Amici? Parenti? Ma come, si chiese, senza avvertirmi? Non ricordava che lei gli avesse detto qualcosa. Certo, ultimamente parlavano poco. Le serate trascorrevano in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri.

 Si immaginò la scena: la tavola apparecchiata come ai vecchi tempi, quando era bambino e le feste erano un pretesto per riunire tutti. I piatti fumanti, le bottiglie aperte, i racconti e le finte risate che si intrecciavano. Si sentì disorientato. Non riusciva a decidere se fosse infastidito o sollevato da quel ritorno improvviso a un calore che sembrava perduto. Decise di non suonare il campanello. Con lentezza, girò la chiave nella serratura e aprì la porta senza far rumore. Entrò e chiuse piano, restando nell’ombra del corridoio. Da lì poteva osservare la scena e ascoltare.

  La sala da pranzo era illuminata, piena di gente. Qualcuno lo avrebbe notato, prima o poi, ma per il momento si sentiva al sicuro. Si nascose dietro l’angolo della cucina, spiando i volti, ascoltando cosa dicevano. Sua moglie stava parlando con una cugina che lui ricordava appena, o forse non la voleva ricordare. I bambini correvano tra le sedie, le guance arrossate dal calore. Suo fratello aveva un bicchiere in mano e rideva, non capiva con chi. Era tutto così lontano e insieme vicino. Loris ascoltava senza capire davvero le parole, ma il suono riempiva il vuoto che sentiva dentro. Si chiese se avrebbe mai avuto il coraggio di uscire dall’ombra, di unirsi a loro. O se sarebbe rimasto lì, invisibile, a osservare quel frammento di vita che, in fondo, era anche la sua oppure decidere di fuggire via.

 All’improvviso, un impulso lo colse. Era come se l’aria fosse divenuta irrespirabile, carica di un calore soffocante. Decise di andare via da quella farsa messa in piedi dalla moglie a sua insaputa. Aprì la porta senza far rumore, richiudendola piano alle sue spalle. La strada era gelida, la neve cadeva lenta, e Loris si diresse verso la macchina. Il motore stentò ad accendersi sotto il freddo ma alla fine fece il suo dovere, partì in direzione del centro città. Guidava senza un vero scopo, solo per allontanarsi da quella casa, da quel mondo che gli appariva ipocrita e fasullo.

Giunto nella piazza centrale, si rese conto che tutto era deserto. Le luci delle vetrine erano spente, le serrande abbassate. La città era vuota, come un palcoscenico abbandonato dopo uno spettacolo andato male. La neve cadeva più fitta, attutendo ogni suono. Loris scese dalla macchina e iniziò a camminare. Ogni passo affondava nella coltre bianca, lasciando impronte che subito si riempivano di neve fresca.

 Sotto un portico, una figura attirò il suo sguardo. Un uomo con una folta barba bianca, avvolto in una coperta fradicia, sedeva accanto a un piccolo fuoco improvvisato, alimentato con pagine di giornale e qualche pagliuzza di legno. Il barbone si stringeva le mani davanti alle fiamme tremolanti, cercando un calore che sembrava quasi impossibile da ottenere. Loris si fermò. Lo osservò a lungo, indeciso. Poi, senza dire una parola, si avvicinò.

– Buonasera – disse piano, sedendosi accanto all’uomo. Il barbone lo guardò di sfuggita, accennando un cenno del capo come risposta.

 Loris si strinse nel cappotto e allungò le mani verso il fuoco. La fiamma era debole, ma viva. In quel momento, il silenzio della città, il calore appena percepibile del fuoco, e la presenza muta del barbone sembravano più reali di qualsiasi altra cosa. Per la prima volta, quella notte, Loris si sentì al suo posto. Lui e il barbone non parlavano, stavano in silenzio davanti al piccolo fuoco, cercavano di scaldarsi. Quante cose avrebbe voluto dire a quello sconosciuto, di sogni rimasti nel cassetto, di tante parole mai dette e che avrebbe voluto dire, di quel posto dove avrebbe voluto tornare ma non aveva mai avuto il coraggio di farlo, perché la vita a volte è così, come vuole il vento. Di quante volte avrebbe voluto farli sparire con un sorriso, di tutti i pensieri che non vogliono dormire.

Il barbone, continuava a stare in silenzio ma era come se ascoltasse i pensieri di Loris, ogni tanto si girava a guardarlo negli occhi e intuiva tutta la disperazione di arrivare al giorno dopo e non sapere cosa fare.

  Loris continuava a fissare il fuoco, la mente incatenata a quel turbinio di pensieri. Il barbone, fino a quel momento muto come un’ombra, si mosse. Allungò una mano verso di lui, come per spezzare quella barriera invisibile che li separava. I suoi occhi erano fissi su Loris, profondi e insondabili, come un lago in inverno. Poi parlò, con una voce bassa e ruvida, ma curiosamente calma:

– Sai, io non sono sempre stato qui. Non è che la strada mi abbia trovato. Sono io che l’ho scelta. –

Loris alzò lo sguardo, sorpreso. Non si aspettava parole, tanto meno confessioni. Ma rimase in silenzio, lasciando che il barbone proseguisse.

 – C’è stato un tempo – continuò, – in cui la mia vita era come la tua. Eri come me, vero? Inseguito da qualcosa che non riesci a spiegare, un’angoscia sottile che ti sbrana piano, senza far rumore. – Fece una pausa, guardando il fuoco come se vi leggesse qualcosa di atavico. – Io avevo una casa, un lavoro, una famiglia perfino, pensa te. Ma nessuna di quelle cose era davvero mia. Vivevo, ma non ero vivo, mi sentivo uno straniero, obbligato a vivere in una patria non sua. Ogni scelta che facevo sembrava venire da qualcun altro, come se il mondo mi stesse spingendo verso qualcosa che non volevo. E un giorno, ho smesso di combattere. Ho lasciato tutto. Non è stato facile, credimi. Ma era l’unico modo per trovare un po’ di pace.-

Loris lo osservava, incapace di staccare gli occhi da quell’uomo. C’era una sincerità disarmante nelle sue parole, un’intimità che lo colpiva nel profondo. Sentiva il bisogno di dire qualcosa, ma non riusciva a trovare le parole giuste.

Il barbone sorrise, un sorriso amaro, carico di una comprensione che sembrava andare oltre il presente. – Sai cosa ho scoperto? Che la libertà è pesante. Non è come ce la raccontano, leggera e gioiosa. È come una zavorra che ti tiene a terra, ma almeno è tua. Non appartiene a nessun altro.- Si strinse nel cappotto, mentre il vento gelido della notte soffiava intorno a loro.

     – E tu? Che cosa cerchi qui, davanti a questo fuoco? Non mi dirai che è solo per il caldo. La città è piena di rifugi più comodi di questo.- Loris abbassò lo sguardo. Era come se l’uomo davanti a lui avesse letto ogni sua esitazione, ogni suo dubbio, ogni angolo nascosto della sua anima. – Forse cerco lo stesso che cercavi tu,- rispose infine. – Un posto dove sentirmi… vero.- Il barbone annuì lentamente, come se quella risposta non fosse una sorpresa. – Allora rimani qui,- disse. – Non con me, ma con il fuoco. Lascia che il fuoco ti parli. A volte, è l’unica cosa che sa ascoltare davvero.-

E così i due rimasero lì, in silenzio. Non c’era più bisogno di parole. Il fuoco, debole ma vivo, continuava a bruciare, come una promessa che, nonostante tutto, il calore in questo mondo era ancora possibile.

 Dopo un tempo che sembrò infinito, il barbone si mosse di nuovo. Prese la coperta logora che lo avvolgeva e, senza dire nulla, la posò sulle spalle di Loris. Quest’ultimo lo guardò, sorpreso, e dopo un attimo di esitazione fece lo stesso, scambiandosi il proprio cartone con quello del barbone per proteggerlo meglio dal freddo del terreno. Le mani si incontrarono per un istante, fredde ma incredibilmente umane. Poi, senza pensarci, Loris si chinò verso l’uomo e lo abbracciò. Era un gesto goffo, quasi timido, ma sincero. Il barbone ricambiò l’abbraccio, stringendolo con una forza che diceva più di mille parole.

 Fuori, sotto il porticato, la neve cominciò a cadere più fitta, coprendo la città in un silenzio ovattato. Il fuoco continuava a bruciare piano, mentre i due uomini si tenevano stretti, condividendo quel poco calore che avevano. In quel momento, non c’era passato, non c’era futuro. Solo il presente, e quel fragile senso di umanità che li univa.         

dicembre 2024