Il confine di Porzia

Il confine di Porzia

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Porzia sa che sta per accadere ancora.

 Lo sente in tutte le ossa, nei muscoli, in quel vago senso di nausea che precede l’evento. È come un presentimento marcio che le sale dalla gola, un riflesso di paura misto a rassegnazione.

      Sta camminando per il viale della Libertà, a Palermo, il sole filtra a malapena tra i rami degli alberi ancora spogli, i palazzi eleganti liberty anneriti dal tempo la sorvegliano dall’alto, quasi la spiano come le statue che di notte guardano la città senza farsi notare. Ha appena comprato le sigarette e una bottiglia di vino bianco economico; pensa di berla per intero davanti al televisore perennemente spento. Poi ecco. Il cono.

      Prima si fa strada ai margini della vista, come una macchia scura ai bordi dell’occhio. Poi si allarga, ingoia tutto. Un sipario di tela nera che cala.

      Porzia scompare. O meglio, il mondo che lei conosce la scarta via. Rimane dentro il cono d’ombra, spettatrice di una vita che le scivola accanto. Può vedere, ma nessuno la vede. Può sentire, ma nessuno la sente. Si agita, urla, colpisce il vuoto sferrando pugni a casaccio. Nessuna reazione. La gente continua a camminare, a ridere, a parlare, i clacson suonano, un cane piscia su un palo, una madre strattona il braccio il figlio che piange, uno bestemmia all’ennesimo semaforo rosso, l’altro guarda il culo di una donna, l’altra va dietro ad un uomo, dal tavolino del bar un uomo e una donna si guardano ma non hanno coraggio. Un altro tenta di rubare una borsetta alla fermata del tram, un altro corre. Tutto normale.

      Tutto fottutamente normale.

      Tranne lei.

      Si rassegna, come ogni volta. Si siede su una panchina sgualcita dal tempo e guarda il mondo che si muove senza di lei. Potrebbe durare minuti, ore. Non lo sa mai. L’ unica costante è la solitudine che la pervade senza via di scampo.

       La prima volta accadde con Loris. Erano a casa sua, avevano fatto l’amore in modo sbrigativo, come se dovesse pagare una cambiale. Lei si era alzata per andare in bagno. E poi, buio. Un buio che non era buio, ma una sostanza, un’assenza solida che la sigillava nel nulla. Aveva chiamato Loris. Lui non aveva risposto. Non poteva sentirla. Era entrato nel bagno dopo qualche minuto, aveva controllato la doccia, il cesso, tutto. Poi aveva mandato un messaggio a qualcuno, si era rivestito in fretta e se n’era andato. Così, senza farsi troppe domande.

        Lei era rimasta lì, in piedi, in quel cono d’ombra prossemico. Era durato tre ore quella volta. Tre ore a guardare il mondo che accadeva senza di lei. Quando il cono si era dissolto, così all’improvviso, senza un motivo, la casa era vuota. Prusak non le aveva mai più risposto ai messaggi. Era come se fosse sparito per sempre da quella sua vita.

       Porzia ci aveva fatto l’abitudine. Quasi. Quando accade mentre è a casa, si sdraia sul divano e aspetta. Se succede mentre fa la spesa, si siede accanto ai frigoriferi e si gode il silenzio. Ma c’è sempre un momento, ogni volta, in cui pensa: e se stavolta non tornassi? Se il cono si chiudesse per sempre? E se fossi già morta, e questa fosse la mia dannazione?

       Il cono si dissolve. Le ombre si ritirano. La vita riprende. Un uomo le passa accanto e le lancia un’occhiata distratta. Il traffico scorre. Il vino nella busta della spesa le pesa sulla mano. Porzia riprende a camminare, fingendo che tutto sia normale. Ma dentro sa che non lo sarà mai. Eppure sapeva che non era morta. Non ancora. Era solo una donna che ad un certo punto veniva inghiottita dall’oscurità. Un film muto,

dove lei era l’unica spettatrice.

      Porzia, seduta sulla panchina, si chiese se Loris avesse mai pensato a lei, dopo che se n’era andato. Probabilmente no. Gli uomini come lui non pensavano mai troppo a lungo alle donne. Erano come ombre anche loro, ma di un altro tipo. Ombre che passavano, lasciavano un segno e poi svanivano. Forse era per questo che il cono l’aveva scelta. Forse era il suo destino, diventare un’ombra tra le ombre. Forse, in fondo, sperava ancora che qualcuno l’avrebbe vista, l’avrebbe sentita. Forse, in fondo, sperava ancora di tornare a essere reale.

      Poi ancora il formicolio che la trapanava e il cono rispuntava spietato, si materializzava intorno a lei, avvolgendola come un vecchio mantello consumato. Il fragore della vita si spense, le voci dei passanti svanirono. Porzia era di nuovo sola. O forse no. Questa volta, il vuoto non era silenzioso, non era solo oscurità. C’erano immagini, ricordi che si materializzavano davanti a lei, proiettati su uno schermo invisibile in bianco e nero. Si fermò, il cuore che batteva forte nel petto, incapace di distogliere lo sguardo.

      La prima immagine era sua madre. La vedeva chiaramente, come se fosse lì, in carne e ossa. Quel viso severo, quelle labbra strette in una linea sottile, sempre pronte a criticare, a giudicare tutto e tutti.

“Non sei mai abbastanza, Porzia, ” diceva.

“Non sei mai abbastanza brava, abbastanza bella, abbastanza intelligente.”

Porzia sentì un nodo alla gola. Quante volte aveva cercato di piacerle? Quante volte aveva fallito? Ogni suo sforzo sembrava svanire nell’aria, come se nulla potesse mai raggiungere quell’ideale irraggiungibile che sua madre aveva fissato per lei. Eppure, non aveva mai smesso di provarci. Fino all’ ultimo giorno, fino a quando la madre non era morta, lasciandola con un senso di vuoto che non era mai riuscita a colmare. Ora, davanti a quell’immagine, Porzia si chiese: era stato amore, quello di sua madre? O solo il bisogno di controllare, di plasmare qualcuno a propria immagine? Ricordò le parole taglienti, i silenzi carichi di disapprovazione, le rare volte in cui un sorriso le aveva illuminato il viso. Forse, in quei momenti, c’era stato amore. Ma era stato così fugace, così condizionato, che Porzia non era mai riuscita a crederci davvero. Eppure, nonostante tutto, aveva continuato a cercarla. Nelle sue relazioni, nel suo lavoro, in ogni scelta che faceva, c’era sempre stata l’ombra di sua madre, quel bisogno insaziabile di approvazione che non sarebbe mai arrivata. Ora, però, Porzia si chiedeva se non fosse stato tutto inutile. Se forse, invece di cercare di piacere a una donna che non poteva essere soddisfatta, avrebbe dovuto imparare a piacere a se stessa. Ma era più facile a dirsi che a farsi. Perché, in fondo, sua madre era ancora lì, dentro di lei. Nelle sue insicurezze, nelle sue paure, in quella voce interiore che continuava a sussurrarle:

“Non sei mai abbastanza.”

Poi, il ricordo cambiò. Adesso c’era lui: suo padre. Lui era diverso. Non urlava, non criticava, non imponeva regole o aspettative. Lui era semplicemente… assente. Seduto nella sua poltrona, il giornale aperto davanti al viso come fosse uno scudo, una barriera tra sé e il mondo.

Porzia lo osservava da bambina, in silenzio, sperando che un giorno avrebbe alzato lo sguardo, avrebbe sorriso, l’avrebbe abbracciata. Ma non succedeva mai. Lui era lì, fisicamente presente, eppure distante, irraggiungibile. Era come se vivesse in un’altra dimensione, separato da lei da un muro invisibile che né le parole né i gesti potevano abbattere.

Col tempo, Porzia aveva smesso di aspettare suo padre. Aveva imparato a convivere con quel vuoto, con quella presenza-assenza che la lasciava sempre con un senso di incompletezza. Ma ora, davanti a quel ricordo, si chiese: perché? Perché non aveva mai provato a raggiungerlo? Perché non aveva mai urlato, pianto, fatto qualcosa per costringerlo a guardarla, a vederla davvero?

Forse, pensò, era perché sapeva che non sarebbe servito a nulla. Suo padre non era fatto per le emozioni, per le dimostrazioni d’affetto. Era un uomo chiuso, imprigionato in se stesso, incapace di esprimere ciò che sentiva. E forse, in fondo, era proprio questo che faceva più male: non la sua assenza, ma il fatto che ci fosse, così vicino eppure così lontano, come un fantasma che non poteva toccare. Porzia si chiese se lui avesse mai provato qualcosa per lei. Se, dietro quel giornale, ci fosse stato un uomo che l’amava, ma non sapeva come dirlo. O se, semplicemente, non avesse mai capito quanto lei avesse bisogno di lui.

     Eppure, nonostante tutto, Porzia non riusciva a odiarlo. Perché, in qualche modo, capiva. Capiva che suo padre non era cattivo, non era indifferente. Era solo incapace. Incapace di amare come avrebbe voluto, di essere presente come avrebbe dovuto. E forse, in quel momento, Porzia si rese conto che anche lei, in qualche modo, era come lui. Chiusa, imprigionata, incapace di esprimere ciò che sentiva. Era questo il vero lascito di suo padre? Quell’incapacità di connettersi, di aprirsi, di amare senza riserve? Porzia non lo sapeva. Ma una cosa era certa: quel ricordo, quell’uomo seduto nella poltrona con il giornale davanti al viso, sarebbe rimasto con lei per sempre.

     Adesso c’erano loro. Tutti gli uomini che, in qualche modo, aveva amato. O forse no. Forse aveva solo cercato di amarli, di riempire quel vuoto che sentiva dentro, senza mai riuscirci davvero.

C’era Loris, con i suoi occhi stanchi e le Camel che fumava una dopo l’altra. Lui l’aveva amata, forse. O forse aveva solo amato l’idea di lei, l’immagine che lei gli aveva mostrato. Porzia si chiese se, in fondo, avesse fatto lo stesso. Se avesse amato davvero Prusak, o se avesse solo cercato in lui una stabilità che non poteva darle. Ricordò le notti passate insieme, il silenzio che riempiva la stanza, le parole non dette che pesavano come macigni. Forse, pensò, era stato proprio quello a uccidere la loro relazione: il silenzio.

     Poi c’era Pablo. Con lui, aveva condiviso un momento di fragilità, di speranza. Avevano parlato di un futuro, di una famiglia, ma Pablo non era pronto.

“Ci penserò da vecchio, ” diceva, come se il tempo potesse risolvere tutto. Porzia aveva cercato di capirlo, di accettare la sua indecisione, ma quando era rimasta incinta e aveva deciso di abortire, qualcosa in lei si era spezzato. Non era stata solo la sua scelta, ma anche la consapevolezza che Pablo non sarebbe mai stato lì, davvero, per lei. E così, aveva lasciato andare anche lui.

    E poi c’era Andrea. Lui l’aveva amata in modo totale, assoluto, quasi soffocante. Per un attimo, Porzia aveva pensato di poter ricambiare quel sentimento, di lasciarsi andare completamente. Ma poi era scappata.

    Perché? Per paura? Perché il suo animo era ribelle e libero, come diceva a se stessa? O forse perché, in fondo, non sapeva cosa fare con un amore così intenso, così travolgente?

    Ora, davanti a quei ricordi, Porzia si chiese se avesse davvero amato qualcuno di loro. O se avesse solo cercato di riempire un vuoto che nessuno poteva colmare. Forse, pensò, era stata lei il problema. Forse era stata lei a non saper amare, a non saper lasciarsi andare. Ma era davvero così? O forse era semplicemente stata alla ricerca di qualcosa che nessuno di loro poteva darle? Qualcosa che, forse, non esisteva nemmeno.

     E poi c’era la malattia. Quella maledetta malattia che non aveva mai curato. Non perché non volesse, ma perché non sapeva come. Era dentro di lei, da sempre, un cono d’ombra che non riusciva a scacciare. A volte lo ignorava, altre volte lo sentiva crescere, diventare più forte, più invadente. Ma non aveva mai fatto niente. Non aveva mai chiesto aiuto. Perché? Forse perché non credeva che qualcuno potesse aiutarla. Forse perché, in fondo, pensava di meritarsela. Porzia si chiese se quella malattia fosse una punizione. Una punizione per tutto ciò che aveva fatto, o non fatto. Per le scelte sbagliate, per le persone che aveva ferito, per le opportunità che aveva lasciato sfuggire. Forse era il prezzo da pagare per essere stata così egoista, così incapace di amare davvero. Ma poi l’amore serve davvero a qualcosa? Ricordò i momenti in cui aveva sentito quella presenza oscura farsi più forte. Era come se la malattia sapesse quando era più vulnerabile, quando era più debole. E in quei momenti, Porzia si lasciava sopraffare. Si convinceva che era giusto così, che era quello che meritava. Ma era davvero una punizione? O era solo una scusa, un modo per giustificare la sua incapacità di cambiare, di chiedere aiuto? Porzia non lo sapeva. Quello che sapeva era che la malattia era lì, dentro di lei, e che non poteva più ignorarla. Forse, pensò, era arrivato il momento di affrontarla. Di guardarla negli occhi e chiedersi cosa volesse davvero. Forse era arrivato il momento di capire se quella malattia era una punizione o solo una parte di lei, una parte che aveva paura di accettare.

Ma sapeva anche che non sarebbe stato facile. Perché la malattia era diventata una compagna, un’alleata della sua non vita. Era lì per ricordarle chi era, per punirla, per proteggerla. E forse, in qualche modo, Porzia aveva paura di perderla. Tutti gli abbracci mai dati, le parole mai dette, le lacrime mai versate. Era tutto lì, nel cono di ombra scura. Tutto il suo passato, tutto il suo dolore.

E poi, improvvisamente, il cono si dissolse. Il rumore del traffico tornò a riempirle le orecchie, le voci dei passanti la circondarono. Porzia si guardò intorno, disorientata. Era di nuovo visibile. Di nuovo reale.

     Il cono d’ombra la avvolse di nuovo, come un vecchio mantello che conosceva troppo bene. Porzia si sedette sulla solita panchina sgualcita, dal tempo, e osservò il mondo che continuava a muoversi senza di lei. Ma questa volta, qualcosa era diverso, lo sentiva. Non c’era più il solito senso di frustrazione, di impotenza. Non c’era più la rabbia per essere invisibile, per essere ignorata. C’era solo una

strana calma, una quiete che non aveva mai provato prima. Porzia guardò le sue mani. Le osservò con attenzione, come se le vedesse per la prima volta. Erano pallide, quasi trasparenti. Le sollevò davanti al viso, e notò che la luce del sole le attraversava, come se non fossero più fatte di carne e ossa.

     Un brivido le attraversò la schiena.

     “Sto sognando?” si chiese. Ma sapeva che non era un sogno. Era qualcosa di più profondo, di più definitivo.

     Chiuse gli occhi e cercò di ricordare. L’ultima volta che si era sentita viva, davvero viva. Ma i ricordi erano confusi, sfocati. Ricordò il viale della Libertà, il vino economico, le sigarette. Ricordò il cono d’ombra che l’aveva inghiottita, come sempre. Ma poi?

     Niente.

     Aprì gli occhi e guardò il mondo intorno a sé. La gente camminava, rideva, parlava. Un bambino piangeva, una coppia litigava, un cane abbaiava. Tutto normale. Tutto fottutamente normale.

    Tranne lei.

     Porzia si alzò dalla panchina e si avvicinò a un uomo che passava. Lo chiamò, ma lui non la sentì. Provò a toccarlo, ma la sua mano lo attraversò, come se fosse fatta di nebbia. Un’ondata di panico la travolse.

     “Cosa sta accadendo?” pensò.

      “Perché nessuno mi vede? Perché nessuno mi sente?”

       Poi, lentamente, la verità cominciò a farsi strada nella sua mente. Non era più viva. Non lo era ormai da tempo.

      Il cono d’ombra non era una malattia, non era una punizione. Era il confine tra la vita e la morte. E lei era rimasta bloccata lì, in quel limbo, senza rendersene conto.

      Porzia si sedette di nuovo sulla panchina, il cuore che batteva forte nel petto, anche se sapeva che non aveva più un cuore. Guardò il mondo intorno a sé con occhi nuovi.

      “Quanto tempo è passato?” si chiese.

      “Quanto tempo sono rimasta qui, senza accorgermi di essere morta?”

      Ricordò Andrea, Pablo, Loris. Ricordò sua madre, suo padre. Ricordò tutte le volte che aveva cercato di piacere, di essere abbastanza. E ora, finalmente, capì. Non era mai stata abbastanza, la vita non era mai abbastanza. Non per loro. Ma forse, in fondo, non era mai stata neanche per se stessa.

     Porzia si alzò e cominciò a camminare. Non sapeva dove stesse andando, ma sapeva che non poteva più restare lì. Il cono d’ombra si era dissolto, ma questa volta non era tornata alla vita. Era andata oltre.

     Camminò per le strade di Palermo, osservando il mondo che non la vedeva più. E per la prima volta, si sentì libera. Libera dalle aspettative,

dalle paure, dalle illusioni, libera da tutto. Forse, pensò, la morte non era la fine come dicono. Forse era solo un nuovo inizio. E così, Porzia continuò a camminare, lasciandosi alle spalle il cono

d’ombra, i ricordi, il dolore. Era pronta per quello che sarebbe venuto dopo. Perché, in fondo, sapeva che non era mai stata così viva come in quel momento.

Marzo 2025