Il mio difetto più grande?
L’impazienza.
E la paura di non riuscire a dire tutto quello che sento dentro.
Quel bisogno quasi tossico di sognare, di ascoltare anche quando so che non serve. Sopra la pigrizia, oltre la maledetta sindrome dell’incostanza, io sono quella sagoma che ti abita l’inconscio.
Una scelta scomoda del tuo IO maledetto.
Un frammento della tua vita, senza quelle cazzo di certezze improprie che tutti cercano per salvarsi.
Io no.
Non me ne vergogno.
E non voglio liberarmene.
Mai.
La gelosia.
Il mondo reale. Il desiderio, quello più basso e profano. L’incomprensione che ti scava dentro come un chiodo piantato al contrario.
Sono anche questo.
Sono una scala cromatica al contrario. Una montagna rovesciata. Un cuore svuotato da troppi battiti sprecati.
Forse.
Tu parli di certezze improprie,
eppure sei tu a non capire. Credi davvero che mi renda felice cercarti nei miei sogni come si accarezzano i fantasmi?
Ti accarezzo da lontano,
mentre tu, là dove vivi, non esisti più per me. O forse io non esisto più per te.
Ma non è colpa tua. Non sei dannata come credi, né messaggera di chissà cosa come ti racconti.
Sei solo una donna che non comprende.
E non capisci che quello che sentivo per te non stava dentro le tue categorie da pseudo sensibile.
No, era molto oltre.
Oltre le tue letture.
Oltre il tuo bisogno di sentirti così “grande”.
O di sentirti amata solo a modo tuo. E quando volevi tu.
Forse è malato il mio desiderio. Forse è dannato.
Ma era amore.
Ed era mio. (forse solo mio) E volevo solo dartelo. Non perché avessi bisogno di sicurezze, né per recitare la parte dell’uomo stabile. Solo per una volta, volevo esserlo davvero.
Ma va bene.
Non ti cercherò. Se questo è ciò che vuoi, ti accontento.
Solo…
non chiedermi di spiegarti ancora. Perché tanto non mi capirai mai davvero.
@G.L. ottobre 2001 – 25