L’HANNO VISTA ARRIVARE

L’HANNO VISTA ARRIVARE

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  (bozzetto istantaneo di una donna alla deriva)

L’hanno vista arrivare dalla frontiera.

Camminava come se avesse perso una guerra che nessuno più ricordava. Il passo incerto, lo sguardo bruciato.

Stringeva tra le dita una sigaretta bagnata. Le dita annerite di freddo e nicotina, come se quella sigaretta l’avesse fumata con le ossa.

Tecla.
Questo il suo nome, sussurrato tra le labbra di chi l’aveva solo intravista,  come un’ombra scomoda nel riflesso della vetrina. Aveva attraversato la notte come si attraversa un deserto, senza acqua, senza direzione, senza illusioni. Solo con quel sacco troppo grande sulle spalle  e un silenzio ancora più pesante dentro l’anima.

Al bar nessuno le chiese niente. Non per cattiveria. Ma perché la gente, quando intuisce il dolore vero, quello che puzza di vita e sogni sfatti, gira la testa per non rischiare il contagio.

Sedette al tavolo. Ordinò un caffè che non bevve. 

Il barista le diede una tazzina mezza sbeccata, forse per caso, forse perché certe persone si riconoscono subito: sono quelle che nessuno vuole rovinare, perché sono già rotte dentro.

Ogni tanto Tecla alzava lo sguardo, ma non cercava nulla. Solo un punto dove posare gli occhi per non vomitarsi addosso i ricordi. Fu allora che lo vide. O forse lo immaginò, ma questo non importa. 

Era seduto nell’angolo più buio del bar, gambe accavallate, la camicia sbottonata fino allo sterno.
Sorrideva.
Quel sorriso di ghigno che Tecla conosceva bene: quello che precedeva le promesse mai mantenute, i lividi fatti con la bocca, i “ti amo” sussurrati solo per entrare.

«Sei ancora viva?» le chiese il fantasma, sputando il fumo contro di lei.

Tecla non rispose.
Si limitò a fissarlo con gli occhi vuoti di chi ha già pianto tutto. Poi, piano, prese la tazzina sbeccata e la lanciò verso l’angolo. Il rumore secco della porcellana spaccata attraversò il silenzio come un lampo seguito da un tuono. 

Il barista si voltò, ma non disse nulla.
Non c’era nessuno, in quell’angolo. Solo polvere e ombra.

«Vaffanculo, Giuliano» mormorò lei.

Il fantasma non scomparve. Restò lì, appoggiato al vetro della vetrina, a seguirla mentre usciva. Come sempre. Come ogni maledetto giorno.

Tecla non era solo bella. Era altro.
Aveva le curve di un autodromo e lo sguardo fiero. Aveva vissuto con uomini che non avevano mai imparato a guardarla in faccia, veramente, solo tra le gambe.
Ma a lei andava bene così.
Perché non voleva amore, voleva solo dimenticare il gusto che aveva avuto,
quella volta sola, quando pensava fosse vero.

Qualcuno disse che veniva dall’ Est.
Qualcuno giurò di averla vista danzare nuda in un locale alla frontiera.
Qualcun altro la ricordava con una pistola in mano e viso coperto.
Magari sono tutte stronzate.
O forse no.

   La verità è che Tecla non veniva da nessuna parte. E non andava da nessuna parte. Era solo uno di quei passaggi. Come un odore che entra in una stanza e poi sparisce all’improvviso, lasciando qualcosa che ti rimane nella gola.
Una tosse.
Un bruciore.

   Rimase in città per tre giorni.
Dormiva dietro la stazione, parlava con un cane randagio, scriveva qualcosa su un quaderno con la copertina rossa.
Una notte un ragazzo provò a seguirla.
Il giorno dopo aveva un occhio nero e la dignità nel cesso.

   Poi andò via.
Così com’era arrivata.
Senza un saluto, senza un rumore. Niente di niente.
Solo la tazzina sbeccata ancora lì, e un mozzicone di sigaretta inciso sul bancone, come una firma bruciata.


@G.L. – 2020-25