(un racconto biografico, una storia per ricordare a me stesso cosa è stato, in un tempo lontano)
Lasciai la Squadra Mobile di Palermo il primo agosto del 2013.
Trascorsero diciannove anni esatti.
Diciannove anni a bruciarmi addosso.
La chiamavano “l’università della Polizia Giudiziaria”, come se lì dentro, in quel palazzo, allora, si potesse imparare qualcosa che fuori non esiste. E forse era vero.
Lì ho imparato a leggere i silenzi, ad ascoltare chi stava zitto, a riconoscere quello che apparentemente non si vede. Ho imparato a muovermi nel buio come fosse luce.
È stato un lungo pezzo di vita che non dimenticherò mai. Non solo in termini professionali. Lì dentro ho lasciato il mio tempo, sonno, lacrime, pezzi di me. Lì sono cresciuto e mi sono perso, contemporaneamente.
Ogni indagine, ogni arresto, ogni sconfitta, ogni vittoria, ogni figlio di puttana guardato in faccia: tutto si è mescolato, fino a diventare una sola cosa. Una vita che non distingue più i giorni, il sole con la luna, il dovere dal respiro.
Poi, un giorno, il mio cuore ha bussato.
Si, è stato gentile, ma deciso.
Ricovero immediato alla cardiologia, quel poco per ricordarmi che non sono invincibile. E per farmi capire che il tempo non è eterno, soprattutto quando lo regali tutto a un mestiere che non ti restituisce mai nulla fino in fondo.
Dopo il ricovero e la degenza mi trasferirono.
Ufficio Informative Antimafia.
Un altro mondo che faticavo a riconoscere. Una stanza, una scrivania, carte da leggere, tante carte che non servivano a nulla. E quella maledetta sensazione addosso: di essere stato tirato via mentre ancora correvo.
La separazione fu devastante. Non lo nego.
Ma non inaspettata.
Lo sentivo da tempo che qualcosa si stava sgretolando dentro. Che quella scatola magica stava per chiudersi. Come accade con le grandi storie d’amore: lo sai che sta per finire, ma quando finisce davvero, non sei mai pronto.
Alla Squadra Mobile mi chiamavano “il Mago”.
Mai capito del tutto perché. Forse perché intuivo prima le cose, forse perché vedevo e sentivo prima degli altri. Non lo so.
So solo che non mi sono mai tirato indietro.
C’ero.
Sempre.
Anche quando mi passava la voglia, quando volevi mandare a fanculo tutto e tutti. Anche quando era più facile voltarsi. Anche quando fuori era Natale e dentro c’erano solo muri, bestemmie e dolori.
In quel palazzo ho stretto legami profondi, fratellanze. Alcuni se ne sono andati, altri si sono dissolti come il fumo di una sigaretta in corridoio. Altri non ci sono mai stati o facevano finta di esserci.
Tutto, prima o poi, si sbriciola.
Anche i nomi scritti sui muri.
Anche i soprannomi sussurrati per rispetto o paura.
La verità è che nessun luogo ci appartiene davvero. Nemmeno quelli che abbiamo abitato col sangue. Nemmeno quelli dove abbiamo creduto di lasciare un’impronta. Forse sì, un po’ di polvere parlerà anche di me.
Adesso ho un’altra rotta. Non l’ho scelta, ma mi tocca seguirla. Forse per riprendermi la salute. Forse per stare di più con chi amo.
O forse solo per imparare a stare fermo, senza sentirmi inutile.
Una sola cosa so.
Io ci sono stato.
Nel bene e nel male, ho lasciato il segno.
E anche se oggi mi sembra distante, quasi inutile… So che non mi sono risparmiato.
@G.L. – Agosto 2013