Loris non aveva chiuso occhio quella notte.
L’afa era una coltre d’asfalto liquido, non bastavano finestre spalancate né il giardino a due passi e anche l’aria condizionata non faceva il suo dovere. Troppa umidità fuori.
Si alzò. In cucina il sole lo colpì in pieno, come un pugno. Gli fece male agli occhi.
Accese il gas, preparò il caffè. Uno, come ogni mattina. Seguito da un infuso di Mate. L’altro caffè lo avrebbe bevuto al solito bar.
Era domenica. Nessun programma, nessuno da vedere. Da quando aveva chiuso con Tecla, la solitudine era diventata una compagna silenziosa e ordinaria.
In bagno s’insaponò il viso. Aprì il rasoio a lama libera, tipo quello che usano i vecchi barbieri, detestava quelli usa e getta, gli graffiavano la pelle, e si guardò allo specchio. Il riflesso tremolava, sembrava non rispondere ai suoi comandi. Cercò un sorriso, ma l’immagine rimase seria. Scosse la testa, dolorante come sempre. Ma quel viso nello specchio continuava a fissarlo, estraneo.
Dalla finestra entravano lame di luce intermittenti. All’improvviso una sciabolata rimbalzò sulla lama del rasoio, gli accecò lo sguardo.
Il calore era soffocante, nonostante fosse ancora presto.
Barcollò.
La lama gli graffiò la guancia.
Il sangue iniziò a gocciolare nel lavandino.
Rabbrividì. “Non è giornata”, pensò.
Risciacquò il viso, il rasoio, ripose tutto. Prese l’allume di rocca, (ereditato dal padre) lo sfregò sul taglio. Ma il sangue non si fermava.
Era irritato, stanco, spaesato.
Si guardò di nuovo allo specchio. Non si riconobbe. L’immagine ondeggiava come aria surriscaldata sopra l’asfalto.
Scese in strada. Il sole lo prese a schiaffi. Le tempie presero a martellare. Aveva dimenticato gli occhiali da sole sul comodino, ma non aveva voglia di tornare nell’appartamento saturo di afa e tanta solitudine. Entrò nel solito bar-tabacchi.
Camel senza filtro.
Caffè macchiato.
Uscì.
Il caldo sembrava seguire i suoi passi. Sotto il braccio stringeva il telo da mare. Si avviò verso la spiaggia libera.
Stranamente, poca gente in giro. Figure sbiadite, fantasmi nello scirocco di una Palermo che non respirava.
Attraversò la ferrovia, imboccò la stradina sterrata e polverosa. Ai bordi, fiori bianchi selvatici sembravano bruciare contro il cielo blu elettrico.
La campagna era una landa desolata di luce. Tutto sfolgorava.
Loris si sentiva lontano, estraneo. Come se camminasse dentro un sogno liquido.
Insetti ronzavano, l’erba secca crepitava. Il suono si faceva amplificato, assordante. Le tempie pulsavano sempre più forte.
Il mare era davanti a lui. Immobile. Ipnotico.
Appena toccò la sabbia, si spogliò in fretta. Camicia, pantaloni. Via tutto. Si tuffò.
L’acqua era gelida.
Uno schiaffo sulla pelle.
Nuotò a lungo, verso il largo. Affondava la testa. Voleva spegnere il dolore. Quando fu stanco, si stese a dorso, a occhi chiusi.
Vuoto.
Tornò a riva lentamente, respirando piano.
Si sdraiò sul telo, pancia a terra. Frugò nella tasca dei pantaloni. Cercava le sigarette. Toccò qualcosa di freddo. Duro.
Il rasoio.
Era lì.
Ripiegato.
Umido.
Lo aprì. Ancora sporco di sangue.
Non ricordava di averlo preso con sé.
Un brivido gli attraversò la schiena.
Richiuse la lama in fretta. L’avrebbe lavata più tardi, nel mare.
Il martellio alle tempie tornò. Quel senso di irrealtà, di vuoto, lo investì di nuovo.
Trovò le sigarette. Ne accese una. Tirò una lunga boccata.
“Ci sarà una spiegazione”, pensò. “Ero distratto, stamani.”
Si toccò la guancia.
Niente taglio.
Provò sull’altra. Nulla. Nemmeno una traccia.
Si addormentò.
Il sole bruciava la sabbia. Loris respirava a fatica.
La spiaggia era deserta. Ma restavano i segni di presenze passate: cartacce, lattine, una pallina sgonfia, un sandalo da bambino, un paio di calze.
Ogni tanto un’onda più lunga gli lambiva i piedi.
Si sedette, frastornato.
Intorno: solo sole, sabbia, silenzio.
Dov’erano tutti?
Sentiva il mondo fermarsi. Tutto si bloccava lì. Si alzò. Barcollava. Raccolse i suoi vestiti, il telo. Camminava stringendo i denti ad ogni riflesso accecante che scaturiva dalla sabbia, dai vetri, dalle conchiglie.
Trovò una roccia. Un piccolo angolo d’ombra. Si sedette.
Abbracciò le ginocchia.
Appoggiò la testa.
Dormì di nuovo.
Lo svegliarono i carabinieri. Lo ammanettarono.
Aveva sgozzato Tecla. Nel sonno.
«Colpa del caldo», disse.
Febbraio 2005-2025