Celle Lager
1915 – 1918
Il 24 ottobre 1917, Il fronte Italiano crolla a Caporetto in seguito a una massiccia offensiva austro – tedesca nel settore nord del fronte dell’Isonzo. Le fanterie nemiche, agli ordini del generale tedesco Otto von Bellow, convergono su Caporetto lungo le due direttrici di Tolmino e di Plezzo, accerchiando la maggior parte del IV corpo d’armata e scompaginando la XIX divisione italiana. Avanzando di circa 150 km. La disfatta provocherà lo sbandamento dell’intero fronte, dall’Altopiano della Bainsizza al Carso; centinaia di migliaglia di soldati appartenenti alle divisioni della II armata abbandoneranno le armi in preda alla confusione e al panico e si dirigeranno verso la pianura veneta, persuasi che la guerra sia ormai finita. La disfatta di Caporetto causò all’Italia gravissime perdite sia umane (circa 11.000 morti, 29.000 feriti, 280.000 prigionieri), sia di materiali bellici. I soldati in fuga verso la Pianura Padana furono circa 350.000 e 400.000 i profughi civili. Tra i prigionieri dell’infausta Caporetto viene catturato Giuseppe Lonatro di Francesco e Abbate Maria Anna, nato a Termini Imerese il 22 gennaio 1896 ivi deceduto l’11 luglio 1954.-
Il 25 ottobre 1917, alle ore 11:00 vengo catturato dagli Austraci su un costone dello Stol, di fronte la strada di Soga. Sono inquadrato con altri prigionieri Italiani; e tutti quanti per quattro: gli ufficiali in testa ed i soldati dietro e scortati da soldati austriaci, c’incamminiamo in cerca della ….. Così s’inizia il calvario dei prigionieri presi nell’infausta Caporetto. Lungo le strade incontriamo reparti tedeschi che ci deridono, percuotendo, appellandoci a traditori, essendo l’Italia uscita dall’Alleanza della Triplice. Un soldato italiano aveva sete, si stacca di pochi passi dalla colonna e si cala a bere acqua dall’Isonzo che corre lungo la strada; un tedesco lo fredda con una fucilata, e il poverino si rovescia per sempre nell’acqua. A tal triste evento ognuno si propone di non muoversi per nulla dalla colonna, onde evitare qualche brutto guaio. Non appena avuto contatto con i discendenti di Attila, comincia a farsi strada in noi la convinzione della barbaria dei tedeschi, cui prima non credevamo, perché non li avevamo sperimentati: brutali, insensibili ad ogni cosa bella, direi pesanti. Ci vengono addosso fortemente, strappandoci mantelline, scarpe (per cui diversi son costretti a camminare a piedi scalzi sul fango, sulle pietre e sulla neve) fascie, gambali, orologi; distribuiscono pugni, calci, colpi di calcio di fucile, tanto ai malcapitati che mostrano di non volersi far togliere nulla, quanto a chi si lascia portar via la roba senza alcuna rimestranza. Qualcuno che oppone resistenza è spedito all’altra mondo con una fucilata. Camminiamo su stradali incassati, mal tenuti, fangosi, pieni di autocarri austriaci e tedeschi i cui conducenti non si commuovono se qualche italiano vada a finire sotto le ruote; per cui è un continuo scansarsi ed un continuo correre da una all’altra sponda della strada, ad evitare sevizie ed altro.
Via via che c’inoltriamo nella zona di pace, le salmerie sono rare. Verso la mezzanotte facciamo la prima sosta presso un villaggio. Un po’ di pane bianco e salame per rifocillarci e poi a dormire in baracche, sulla nuda tavola. Siamo bagnati dalla pioggia caduta durante la marcia, intirizziti dal freddo. Il giorno appresso (26 ottobre). Alle 08:00 si riprende la marcia attraverso estese montagne bianche di neve e camminando per tutta la giornata, ogni tanto le sentinelle, dietro le nostre insistenze, ci lasciano fermare per dieci minuti, per riprendere il cammino, lento, monotono, silenziosi… I conoscenti ci teniamo vicini, e quando arriva la sera ci chiamiamo di continuo per nome, temendo di sperderci. Alle 22:00 perveniamo in un viallaggio: una pagnotta ed una scatola di carne e poi in baracca sulla paglia. Ci rimettiamo in moto il 27 mattina verso le 08:00. Si sale per una strada che corre su altissime montagne nevose. Durante la salita ci colpisce la presenza di prigionieri russi; secchi, stecchiti, macilenti, coperti di cenci, intirizziti dal freddo, che con pale sgombrano la strada dalla neve, sotto gli occhi di sentinelle austriache. Al nostro passare tendono la mano a domandar pane, ma non ne abbiamo. Procedente nella salita, il freddo aumenta e tira via un vento gelido che agghiaccia il naso e le orecchie. Tanti a cui sono state tolte mantelline e cappotti dai tedeschi, debbono soffrire questo freddo. Camminando sulla neve, non vediamo che un tappeto sterminato di bianco e come volta un cielo nuvoloso e nero. La pioggia molto spesso fa capolino e bagna i nostri panni, da due giorni inzuppati d’acqua. Giunti alla sommità della salita (20 km di salita) sull’imbrunire, ci fanno fermare presso un posto di conforto sito proprio alla sommità di tanto ammasso bianco. Vengono fuori una monaca e degli ufficiali medici austriaci, i quali sulla via ci distribuiscono un bicchiere di cognac ed una sigaretta per ciascuno. Siamo tutti stanchi: ormai marciamo da parecchi giorni (dieci dal 21 ottobre di marce forzate con il mio battaglione che si è mosso da Cerova (Cormons).
Le gambe vanno avanti l’una dopo l’altra, spiunte dalla forza di arrivare a qualche posto, altrimenti molti ci butteremmo per terra, tanta è la stanchezza; in quel caso nessuno si curerebbe dei tanti disgraziati. I piedi sono piene di piaghe, dopo tanti kilometri percorsi. Quando dopo una sosta ci rimettiamo in moto, è un disastro; i piedi non si possono staccare da terra, non si possono posare a terra, sono oltremodo indoleziti, bisogna andare adagio adagio nei primi passi, quasi fossero di vetro, e i dolori che si avvertono sono acuti, le gambe tremolano, e cosi la speranza che presto si arrivi, ci muoviamo malamente, quasi barcollando, come ubriachi. Domandiamo ad ogni passante, quanti chilometri ancora ci restano da fare. Tutti rispondono: dieci minuti. Ma passano i dieci, i trenta minuti, le ore e non si arriva mai. Qualcuno ci ride in viso dicendoti: eh! Poveri illusi, dovete marciare chilometri e chilometri. Qualche altro si muove a pietà e non nasconde la strada ancora lunga e c’infonde coraggio. Noi, è tanta l’ossessione della stanchezza che prestiamo fede a quelli che ci dicono dieci minuti.
Viene giù la sera. Si fa notte e noi andiamo al buio, agglomerati come un branco di pecore, muti e silenziosi. D’un tratto una voce grida di aver visto lontano dei lumi. Ognuno guarda avanti a se, nelle tenebre, vede i lumi; l’animo prostrato ed abbattuto si soleva, la stanchezza e la fame quasi si avvertono; le gambe vanno più spedite perché i lumi indicano la presenza di un abitato, nel quale finalmente, accompagnati da una pioggerella che penetra fin nelle ossa…giungiamo: è Kronen.
Siamo condotti in baraccamenti per truppa, ove l’unica volta diventa tutto il periodo della prigionia, ognuno può avere la fortuna e la pazza gioia di mangiare carne, patate e pane a sazietà. Riscaldare l’ambiente, stufe ardenti che ci levano il freddo che sentiamo. Sul più bello quando avevamo preso un po’ di sollievo, gli austriaci ci radunano alla stazione e con un treno formato da vetture di 3° classe ci spediscono ad Asling, arrivando quivi dopo circa tre ore. Dalla ferrovia al campo ci sono circa quattro chilometri di strade che noi percorriamo. Nel campo, formato di casette in muratura su una collina chiusa da montagne; tutte le camerate sono occupate da altri italiani, catturati nei giorni precedenti e che dormono sulla paglia fradicia e piena di pidocchi. Bisogna accomodarsi come si può e la stanchezza e l’abbattimento non fanno pensare ai pidocchi ne al pavimento sporco come un letamaio, per dormirvi con l’aiutante maggiore del mio battaglione, tenente Fanti. Prendo posto per le scale che sono un ammasso di grigio – verde, dal quale vengono fuori teste, mani e scarpe. Mi addormento subito e profondamente, non avvertendo che gli spigoli degli scalini, ove son fortunato dormire, mi penetrano nelle carni; il giorno dopo mi sveglio abbastanza indolenzito e se mi fossi guardato nelle carni, avrei trovato dei solchi. Giro un po’ per il campo: parecchie casette a due piani, circondate da due file di reticolati e sentinelle; vicino e lontano neve su neve. Ci prendono le generalità, e facciamo la disinfestazione personale ed anche del vestiario in locali che sanno di muffa e sporcizia. Il signor freddo ci costringe a tapparci dentro le camerate e a stare in contatto l’un contro l’altro, a scaldarci con il calore reciproco dei nostri corpi. Qui il vitto consiste in un po’ di farina bollita con acqua somministrata in una ciotola di ferro arruginito, e per due volte al giorno che beviamo senza cucchiaio. Per averlo si va fuori le casette, ci sono dei mastelli di tale porcheria…, due austriaci ne danno un mestolo a testa. Tutta l’aria famelica dei prigionieri, si accalca attorno ai mastelli e da principio la distribuzione avviene regolarmente. Ognuno vuol passare in testa temendo di restare digiuno. Iniziano i pigiamenti, gli spintoni, il flusso e riflusso di tanta gente, che degenera in un confusionismo; schiamazzi, voci, ingiurie, ci urtiamo, pestano i piedi, regali di titoli; non si riconoscono più i gradi, i pugni, i “mascalzoni” volano via, la massa furibonda fa correre rischi ai mastelli di rovescire il ben di Dio che contengono, gli stessi austriaci si annichiliscono, chiamano la guardia che ci respinge e tutto questo per un tantino di farina bollita. La calma sembra rientrare, ma poi vvivene subito rotta. Ricomincia il confusionismo, il regalo di titoli, ritorna in lizza la guardia, viene ripristinata la calma, ma poi siamo nuovamente da capo. E così procede la dispensa di tanto cibo: un soldato italiano, prigioniero da parecchio in questo campo, mi ofre un pezzetto di pane al prezzo di due lire, che la fame mi fa comprare. Mi incontro con l’aspirante Giacomo Sunseri da Trabia. Appena vistici con un salto reciproco ci buttiamo l’un nelle braccia dell’altro, piangendo della triste sorte.
La sera è giunta, ci accoccoliamo come le galline per terra e stretti l’un l’altro, per non sentire il freddo. A mezzanotte gli austriaci ci svegliano e ci consegnano a dei tedeschi. Chiodati sotto la pioggia si va alla stazione, veniamo caricati in carri bestiame (50 per carro), sporchi di letame e dei quali buona parte sono scoperti. E a quei disgraziati che capitano in carri scoperti, tocca durante il percorso avere addosso nevicate e pioggie. Come tanti salami si parte (28 ottobre) per la Germania. Il treno procedendo tra neve, acqua e freddo entra nella notte dal 30 al 31 ottobre nella Germania, nella quale tutti credono essere trattati meglio che in Austria. Sono gelidi i vagoni e il freddo è alto. Siamo buttati e serrati l’un l’altro sul pavimento; domandiamo acqua e c’è la negano e ci ridono in faccia; domandiamo un pezzo di pane, e ci scherniscono, chiadiamo un po’ di fuoco per scaldarci dal gelo e ci svillaneggiano. Diversi si lasciano vincere dal pianto. Cinque giorni rinchiusi dentro i carri intirizziti, bagnati, tenuti con una fetta di pane Kappa al giorno (il pane Kappa è fatto di segatura di legno ed altre porcherie) ed una ciotola di caffè (cioè acqua bollita con erbe selvatiche e ghianda di sapore e odore sgradevole) che si beve per mettere qualche cosa di caldo in corpo contro il freddo. Tanto vitto viene dispensato ogni 24 ore.
Alla stazione di Bebra chiedo un sorso d’acqua ad una signora tedesca, mi vede sporco, temante di freddo, malmesso e con voce che a stento tito fuori; non si commuove, mi sghignazza n viso vociano il suo tedesco, facendomi capire che ai prigionieri italiani, nessun tedesco e nessuna tedesca, debbono dare nemmeno acqua. Sono prigioniero e non posso romperle il muso, se no mi ammazzano.
Tocchiamo Villach, Innsbruck, Rosenheim, (dove siamo sottoposti a bagno caldo e disinsfestazione) Monaco, Augsburg, Ulm, Stoccarda; in diverse stazioni i ragazzi aiuzzati dai tedeschi, vengono fin sotto i vagoni ad ingiurarci, a sputarci, e i tedeschi militari e borghesi, li lasciano fare.
Il 2 novembre come il Dio o il diavolo vuole, si arriva a Rastardt, al campo russo (russenlager = campo per i russi), situato a due chilometri dalla città, composto da varie sezioni di baraccamenti, divise tra loro da reticolati. Le stufe per fortuna sono calde e possiamo alla meglio scaldarci le carni ed i panni. A mangiare o meglio a bere ci viene somministrata una bacinella d’acqua bollita con pochi pezzetti minutissimi di baccalà ed erbe e carote e terra, che noi chiudenfo gli occhi per non vedere e le narci per non sentire il fetore, bisogna mangiare giù nello stomaco. Si dorme tra lenzuola che sembrano morbidissime, perché avevamo perduto da tempo l’uso di dormire nei letti; e il morale si rinfranca un po’.
Il giorno dopo serpeggia per il campo la notizia che i tedeschi non conoscendo la posizione degli aspiranti, in quanto se sono o no ufficiali, pensano di trasferirli in campo per truppa, e malgrado la nostra protesta con le quali diciamo di essere ufficiali, spinti anche da ufficiali generali e superiori (che affermano la nostra posizione di sott’ufficiali), i tedeschi con un treno di 3° classe, ci mandano in un altro campo per truppa alle ore 16:00.
Attraversiamo boschi, pianure, terreni coltivati a carote, segala, patate (ufficiale nutrimento della Germania). In una stazione di cui non ricordo il nome, qualche aspirante tende la mano dal finestrino del treno ad un gruppo di bambini che mangiano del pane. Uno di questi si avvicina mostrando di dare il pane; un soldato tedesco che se ne accorge, lo caccia via vociando col fucile. Alle 23:00 dopo aver toccato Carslve, Heidelberg, Mannhim, arriviamo a Darmstadt. Scendiamo dal treno e per quattro dopo circa un’ora di cammino al buio, giungiamo al campo truppa (ci sono francesci, inglesi, russi), ove ci mettono in baracche in cui non è estranea la numerosa schiera di pidocchi. Si dorme su ciacigli e per terra. Il giorno dopo una commissione di aspiranti fa presente ai tedeschi il nostro stato di ufficiali in Italia.
Il vitto è uguale a quello di Rostardt. Verso le nove di sera, trovandomi con aspiranti e soldati al cesso, entra un tedesco armato di fucle che, vociando come un ossesso da ad intendere che si esca da quel locale per ritirarci in baracca, menando colpi a destra e a manca. Ognuno per non pigliarli, scappa, e a metocca fuggire via tirandomi su i calzoni durante la corsa. Un disgraziato soldato che non fa a tempo ad allontanarsi, piglia botte e colpi di baionetta al ventre tanto che muore sul cesso tra spasmi. La spiegazione di tanto assassinio la conosciamo il giorno dopo, in cui i tedeschi fanno presente che dalle 21.00 alle 06:00 nessuno deve andare fuori dalle baracche per nessuna ragione, altrimenti viene fucilato dalle sentinelle e ronde ivi sul posto. Lo potevano dire prima! Povera Convenzione dell’Aia! Le baracche del campo sono raggruppate in sezioni, le quali sono divise l’una dall’altra da reticolati interni. Sentinelle poste anche presso i reticolati interni proibiscono di farci parlare con i francesi che si trovano nelle altre sezioni; la fame cattiva o buona consigliera, ci spinge a sfidare qualche fucilata, e attraverso i reticolati comunichiamo lo stesso con i francesci, dando loro mantelline, scarpe, fasce, fazzoletti, anelli, orologi, penne stilografiche, ecc. in cambio di pane biscottato, scatole di carne, di pesce, ciuoccolatta, pasta,riso, fagioli. Per fare questo baratto, si stà ore ed ore al freddo e carpendo il momento in cui le sentinelle o non se ne accorgono, o non guardano. Qualche francese ci butta il pane Kappa regalandocelo; attribuisco tale atto di donazione al senso di pietà soltanto, invece oltre il senso di pietà c’è anche quello di levarselo dai piedi; che non mangiano, perché ricevono da casa e dal governo viveri a bizzeffe ed anche di ottima qualità. Anche noi in seguito, quando riceviamo i nostri bravi pacchi, non mangiamo più la roba tedesca, che buttiamo via o la diamo ai russi, molto più affamati di noi ed in condizioni disastrose, essendo abbandonati dal governo russo rivoluzionario, ad una sorte misera e triste.
I tedeschi in questo campo fanno lago uso di bastoni ferrati, specie contro di noi italiani, poiché alleati dell’Intesa; per noi è un continuo scansarsi, per cui impariamo a conoscere il modo che questa gente usa per farsi capire: calci, pugni, schiaffi, baionettate e fucilate. La fame ci tormenta. Dal nostro recinto vediamo i francesi che mangiano, e noi, con tanto di occhi fuori dalle orbite, stiamo ad aspettare, miserabili e pezzenti che, si sa, qualcuno lanci un pezzo di pane, anche sporco, sputacchiato; in tal caso facciamo come i cani: si corre vociando, ci si pesta, ci si spinge, si urla, si schiamazza, piangendoci, ed è fortunato chi afferra ed addenta quel pezzo di pane; intanto le sentinelle ridono beatamente. Le prime parole tedesche che ognuno impara subito, perché il significato è per noi di capitale importanza, sono: Brot =pane; Nisch= niente; Vasser= acqua; Essen= mangiare; Kartofefel= patate; Lorsk= avanti; Zuruch=indietro (quando ci cacciano); Iguten= buongiorno; Got-nact= buonasera; Rauchen= funare; Fride=pace; ecc. Il sei novembre è distribuita a tutti gli aspiranti una cartolina per scrivere a casa; onde rendere nota la nostra incominciata prigionia. Il sette i tedeschi annunziano che ci trasferiscono in un campo per ufficiali avendoci essi riconosciuti come tali. Si esce dal campo a nuclei. Il mio è tra i primi. Una voce parte da un nucleo vicino al mio: “Piddu Lonatro”, mi volto e vedo l’Aspirante Lo Presti Carlo del 2° Genio, Terminese. Il primo paesano che vedo. Il nucleo di cui di cui lui fa parte, si accoda al mio e, lungo il tragitto per andare dal campo alla stazione, mi unisco a lui che mi riferisce di aver visto gli Aspiranti Peppiuno La Rocca e Vincenzo Pirrone, anch’essi paesani. Tento di trovarli, ma non mi riesce, le baionette tedeshe non permettono che un prigioniero inquadrato apporti disordine nelle file. Viaggiamo in vetture di 3° classe dalla Germania centrale a quella orientale, salendo dapprima verso il Nordo, toccando Francoforte, Meirburg, Kissel e piegando per destra, passando per Monaco, Lipsia, Dresda, Breslavia, in mezzo al freddo gelido, senza riscaldamento e senza luce, con una fettina di pane al giorno e un litro della solita zuppa e pugni e nerbate anche senza alcuna ragione.
Presso una stazione, apriti cielo, la fortuna o il tedesco impazzito ci offre una bacinella di orzo bollito che divoriamo avidamente come se fossimo ad un pranzo luculliano. Nel mentre lo dispensano, tanta è la ressa nostra per la fame che nasce un parapiglia. Degli aspiranti riescono a fregarsi una seconda bacinella d’orzo, tra cui anch’io, e via di gran carriera a mangiarcelo in treno per non farci sorprendere. L’ordine viene ristabilito a colpi di calcio di fucile. Desidero un secondo parapiglia per racimolare una terza bacinella d’orzo, ma questo desiderio, il tedesco rinsavito, questa volta me lo fa perdere.
Arriviamo dopo due giorni a Crossen sull’Oder a pochi chilometri dalla Russia. Veniamo giù dal treno e dopo un’ora di marcia sulla neve e sotto la pioggia, siamo al campo, formato da soldati russi, francesi e rumeni. <<Ma se avevano detto di averci riconosciuti ufficiali.>>. Osserviamo, <<perché ci conducono in questo campo? Ci considerano come truppa!>>. Una fettina di pane e una bacinella d’acqua con poche verze (quello che si danno ai porci); tutto dispensato e consumato sulla neve e poi dentro a dormire in una baracca tutta sgangherata e piena di fessure, da cui entra il gelo. Per fortuna i tedeschi pensano ad accendere l’unica stufa della baracca per scaldare l’ambiente e i nostri corpi intirizziti. Trovo La Rocca e Pirrone, ed allora con loro e Lo Presti decidiamo di stare sempre uniti. L’indomani gli Aspiranti subiscono il bagno e la disinfestazione del corpo e dei vestiti, in un locale che è un vero immondezzaio, che puzza maledettamente. Ci svestiscono nudi e consegniamo i vestiti a prigionieri russi che li fanno scaldare ad alta temperatura in appositi forni. I russi addetti al lavoro in questo locale, con un grosso pennello, ci ungono le ascelle e parti del corpo innominabili ove c’è pelo, con una mistura di calce ed altri elementi. Ci collochiamo avanti le stufe, il calore delle quali fa seccare la mistura; ci fanno strofinare con le mani sulle parti ove è stato passato il pennello, e i peli, come per incanto cadono giù, cosicchè siamo spelati, in modo da sembrare chiassà quali figure umane. Il bagno viene fatto in un tinello con acqua calda e per asciugarci ci dano coperte vecchie, sporche, che non servono ad altro che ad insudiciare più di prima. Per quasi mezz’ora ci tengono nudi e al freddo e dopo farci così stare ci restituiscono i vestiti per vestirci. Vengono ritirati i nostri elemeneti come preda di guerra in cambio di berrettini neri rotondi, la cui stoffa è dello spessore della pietra. Il campo è circolare, al centro è sita una torretta di tavola con un orologio in cima, attorno alla base cinque cannoncini da adoperare contro i prigionieri nel caso che non stessero a loro posto. La torretta è adorna da reticolato, attorno questa a distanza di circa 50 metri in modo da lasciare un certo spazio circolare, stanno i baraccamenti, divisi in varie sezioni, nelle quali stanno francesi, russi e rumeni. Una sezione è adibita per gli Aspiranti italiani. Ogni baraccamento è composto di varie baracche disposte ad U, la cui concavità è prospiciente alla torretta e porta un reticolato con una porticina presso la quale fa la guardia una sentinella. L’esterno del campo è chiuso da reticolato. Siamo divisi in cento per baracca ed isolati dai francesi e dai russi, dentro la sezione per cinque giorni come in quarantena. Due volte al giorno i tedeschi fanno l’appello fuori le baracche, ma sempre dentro il recinto; alle 10:00 e alle 16:00; ci si dispone per due e per baracca e per ordine di baracca, in modo da risultare le baracche, come tante colonne affiancate. Sottufficiali tedeschi co contano come le pecore alla presenza di un ufficiale che conta anche lui. Il vitto consiste in questo: in una bacinella arruginita, un litro di oba formata di acqua sporca con pezzetti di carta e rape e due o tre patatine, e alle volte queste sono buccie; questa zuppa la battezziamo: sbobba; la dispensano due volte al giorno: alle 12:00 e alle 18:00 con una fettina di quel che i tedeschi chiamano pane; i russi portano a mano dalla cucina, che trovasi all’entrata del campo, grossi mastelli di “sbobba” fin dentro il nostro recinto. Noi, si esce fuori per baracca e per due e ci si sispone come all’appello in tante colonne, davanti alle quali i russi passano i mastelli; si sta così per una buona mezz’ora. Il freddo punge e noi pestiamo per terra onde attivarne i martiri del gelo. Guardiamo un po’ i prigionieri: chi è avvolto con mantellina, chi con coperte, chi è senza e chi gli scolano gli occhi e il naso, chi ha scarpe rotte e chi ha zoccoli: gli occhi (infossati dopo tanti giorni di fame) son fissi ai mastelli, chi sta dietro e chiede ai compagni davanti. “ Com’è la sbobba? Non ve ne sono? E’ densa? Ci son patate? Non ve ne sono?” Poi quando Dio, o meglio il sott’ufficiale tedesco di servizio vuole, da il Lorslc (=avanti), i russi cacciano i mestoli nei mastelli e man mano che il russo da la sbobba, si va in baracca per non uscire se non dopo la fine della distribuzione, pena qualche fucilata di sentinelle appositamente poste davanti le poste di ogni baracca in ogni distribuzione della sbobba. Questo provvedimento esiste pere il fatto che tanti che sono i primi a pigliare la sbobba, la mangiano subito e si cacciano in mezzo ai colleghi che ancora non l’ha presa, per cui molti resterebbero (com’è avvenuta nei giorni precedenti a questo provvedimento) senza sbobba, e i tedeschi oltre quella quantità non danno. Questi signori annunziano l’ora dell’appello spalancando le porte delle baracche e vociando: Raus (=fuori); e noi come le pecorelle usciamo fuori sulla neve. Durante i cinque giorni di quarantena dai reticolati contrattiamo i russi e francesi dando al solito quel che abbiamo addosso e ricevendone roba da mangiare. I tedeschi se ne accorgono e non lo permettono più. Finita la quarantena, viene aperta la porta del recinto nostro, e ci riversiamo nei recinti dei russi e francesci, con i quali barattiamo per un po’ di cibo. Anche questa volta interviene la proibizione tedesca; allora il mercato si trasferisce nella cantina del campo, mercato che ha luogo la sera e col tacito consenso dei tedeschi che danno pane ed altro ai russi e francesi, i quali vendono a prezzi di strozzinaggio, guadagnando così russi, francesi e tedeschi. Anche in questo campo i tedeschi allietano con pugni, calci, ecc. Tale è la lingua parlata tedesca. Il sotto tenente tedesco addetto per noi, all’appello si tiene per un’ora e anche due fuori, in riga, sulla neve e al freddo. Non ometto i tormenti della temperatura. Il comando tedesco del campo ordina che gli aspiranti salutino oltre gli ufficiali tedeschi, anche i sott’ufficiali e i soldati. Nessun aspirante esegue quest’ordine; soltanto a norma delle convenzioni internazionali, salutiamo i soli ufficiali e, dirimando all’’rdine tedesco rendiamo ancor noto che la nostra posizione di ufficiali esige il saluto dai militari di truppa tedeschi e sott’uffuciali tedeschi, verso noi ufficiali italiani. I tedeschi minacciano; ma il nostro contegno tiene duro; il decoro italiano calpestato dagli unni in mezzo alle miserie atroci della fame e delle sevizie è mantenuto altissimo da tutti gli aspiranti, per cui il comando tedesco abbandona la sua stupida idea.
Un giorno salta il ticchio al tedesco di farci fare un po’ di ginnastica, cioè ogni baracca inquadrata esegue al passo una marcia di mezz’ora al giorno dentro il campo, allo scopo di sgranchirci un po. Capisco che non è tanto male un po’ di moto, farebbe bene; ma con lo stato attuale di salute, una boccata d’aria può provocare all’organismo indebolito, malanni come: tisi, polmonite e simili. Dormiamo su pagliericci e vestiti, riparati dal freddo da due copertine che fan ridere. Ogni baracca ha una stufa e con poco carbone, perché più di una limitatissima quantità i tedeschi non danno; e dire che la Germania è ricca di carbone. Due tavoli da taverna e due panche sono da ornamenti. I giacigli sono a tre piani e sembrano delle nicchie, ove di depositerebbero casse per morti, quali noi veramente siamo. Le cucciole sono costruite con tavole accatastate l’una sull’altra, tra le quali esiste uno spazio, attraverso il quale entrano il freddo e la neve. I tedeschi distribuiscono il numero di matricola che ognuno deve attaccare al petto o al braccio come tanti galeotti. Il mio è il “704”, quello di La Rocca il “705”, quello di Pirrone il “706”, quello di Lo Presti il “707”.
Un recinto è adibito ad infermeria – ospedale (=Lazaret) per i prigionieri mlati. Non c’è nessuna differenza con le nostre baracche, tali e quali, e non letti ma paglierini di sterpi. E come medicinali si usano, l’aspirina e il chinino per tutte le malattie; per cui c’è da augurarsi che nessuno si ammali, altrimenti chi entra all’infermeria, ne esce per lo più per andare a dormire al cimitero del campo, ove riposano un’infinità di russi e rumeni morti di polmonite, pleurite ed ammazzati dai tedeschi. Costoro per timore che cimpossiamo ammale, ci fanno iniezioni antitifiche, antivaiolo, ecc.; quanto sono buffoni! Il campo è in lieve pendenza da ovest ed est. Verso nord – est il terreno si eleva dal livello del campo in modo da dare al paesaggio un’idea delle nostre colline siciliane. Scriviamo a casa che non ci danno da mangiare e i tedeschi minacciano di non farci più partire la posta. Allora i prigionieri nell’agonia dei tormnenti aguzza l’ingegno e ricorre a giri di parole per mettere bello e chiaro agli occhi dei genitori che qui l’affamano, che gli lasciano lo stomaco a riposo e che se lo vogliono vedere tornare gli mandino pacchi di viveri e pane. Il freddo maledetto aumenta che è un piacere; le baracche sono gelide, i prigionieri malvestiti, scarni, macilenti, abbruttiti, tengono capelli incolti, barbe non curate e arruffate, sono sporchi e non si lavano mai, perché l’acqua è sempre ghiacciata e il freddo accoppiato alle condizioni angoscianti di salute non permettono loro di lavorare; e solo fanno un po’ di pulizia e a grande velocità quando il freddo ha di loro un po’ di compassione. Siamo tutti con un fazzoletto, una camicia, un paio di mutande, con un paio di calze sempre ai piedi e ridotti in poltiglia, stracciati. C’è gente che vende scarpe e panni ai russi e francesi per il pane; e poi dai tedeschi riesce ad ottenere stivaloni, rotti e vecchi, zoccoli di legno, pantaloni, la cui stoffa è dello spessore della carta. L’abbattimento è tale che per niente ci regaliamo pugni, calci, insolenze. Ci sono coloro che stanno eternamente presso la stufa per il freddo, ma io mi contento di stare alla larga, perché qualche cristo o diavolo, quando esco o per l’appello o per altro, mi può spedire al cimitero del campo. Difatti tre aspiranti, a breve distanza l’uno dall’altro con polmonite vanno all’altro mondo. Una buca scavata dai russi, affamati più di noi, è l’unico conforto che i tedeschi concedono; ed è un miracolo se a nostra domanda permettono che un gruppo di aspiranti accompagni gli sventurati estinti all’ultima dolorosa dimora. Passiamo il tempo parlando continuamente di pietanze; almeno le gustiamo, se non altro col pensiero. Qualcuno, parlando del modo di condire, si esprime in modo che sembri veramente che anziché discorrere di tali cibi, li mangiamo davvero. Fuori nevica, tutto è un vasto manto bianco. I signori tedeschi, dietro tante nostre insistene consentono che i mastelli della sbobba siano portati in baracca e distribuita dentro la sbobba e non fuori. Però anzi che i russi, i tedeschi ordinano che i mastelli li portiamo noi. E sia pure, si fa allora a turno a pigliarli in cucina e ad ognuno tocca ogni 15 giorni. Ma son dolori a portarli, le condizioni nostre sono pessime e bisogna faticare; ogni due passi ci si ferma a riposare ansimando, e il tedesco che viene dietro sghignazza e vociando intima il lorsk (=avanti), noi per paura delle baionettate ci sforziamo barcollando di spingerci innanzi. Nel tragitto qualche aspirante tuffa la propria ciotola nel mastello, e se il tedesco se ne avvede, son botte sonore. La cucina della sezione dista un 50 metri, il cui percorso col gelo e con la neve e con le condizioni nostre misere ci sembra di silometri. Una volta in cui tocca di portare un mastello, l’apirante appena giunto in baraca cade svenuto sulla neve. Ha pregato l’interprete tedesco d’un mascalzone esci professore che è stato in Italia, ed è conosciuto da due aspiranti di farlo rientrare in baracca, perché non ne può più dal freddo, si è fuori sulla neve da un’ora. E pertanto da due colleghi e quando rinviene piangendo dice aludendo all’interprete: “che Dio ti maledica, in nome dei due miei bimbi.”. Arrivano nel campo verso il 15 novembre altri aspiranti fatti prigionieri dopo di noi, che vengono assegnati nelle nostre baracche. Pensiamo alle famiglie, ognuno crede fermamente che non le vedano più e poi perché con qesto genere di vita, creperanno presto e i tedeschi un bel giorno ci massacreranno, non avendo di che darci a mangiare. Con la sbobba si orina 20 e 30 volte al giorno, siccome è acqua il nutrimento, e di corpo si va, se pure una volta la settimana. Le latrine, per ogni recinto sono fuori, ed è un guaio uscire continuamente al freddo per l’eterno orinare. Molti per il freddo stanno accovacciati nel giaciglio. Non sappiamo ancora notizie di casa e non si sa se e quando arriveranno i pacchi, e intanto Natale si avvicina. Acqua non se ne beve più, ne beviamo tanta nella sbobba. Tanti han trovato l’animo francese e son diventati delle mantenute di costoro. Dai quali quasi ogni giorno ricevono qualche cosarella da mangiare.
Un giorno, mentre ero buttato sul giaciglio, mi viene a trovare Pietro Morreale, anche lui terminese , macilento, scarno, barbuto, venuto nel campo dopo di me, ci si bacia, ci commuoviamo, ma una lacrima non ci spunta, le ghiandole lacrimali sono aride. Verso i 20 novembre i tedeschi ci fan passare fuori in riga, scelgono i più macilenti e li mettono in altre baracche della stessa sezione, con lo scopo di are mezzo mestolo in più di sbobba, cioè acqua in più. Nei primi giorni danno realmente il mezzo mestolo in più, ma dopo la razione ritorna come prima, cioè ripigliano a toglierci quella cosa in più che dispensano, sia pure acqua sporca, am adalla quale potevamo trarre almeno qualche altra carota.
I giornali tedeschi annunziano il rovescio della Russia e la pace di Brest Litoiski. Il freddo aumenta. Qualche notte ci tormenta anche il vento, a volte è così impetuoso che le baracche scricchiolano e sembrano dover essere rovesciate, qualche porta si scardina e i tedeschi la lasciano così per due tre giorni e poi con il loro comodo la fan rimettere a posto; e si pensi come si deve stare giorno e notte con quell’apertura, da cui entra l’inferno del freddo. Le stufe son sempre arroventatre, il fredo vicne il calore di esse, e una volta ricordo, non potevo resistere, tanto che, mi coricai sulla stufa ben calda. Non avvertivo per niente il calore e soffrivo maledettamente. Frattanto una voce porta la lieta nova che alla stazione di Crossen giace un carro di pacchi venuto dall’Italia e che fra due giorni saranno distribuiti. Un grido di ovazioni saluta la notizia. Vanno via quattro, quindici giorni e non si vede nulla. Figuriamoci il morale nostro. Aspettiamo ancora il nostro riconoscimento di ufficiali. Siamo a natale già! Che brutto Natale! Prigioniero, lacero, affamato, pezzente, lontano dalla patria e dai cari, tra il gelo e la neve, scarno, macilento, prostrato, sempre con un fantasma nero agli occhi; la morte per fame, tubercolosi, polmonite. Meglio orire subito, anziché vedersi strappata la vita a poco a poco, in così brutta lotta tra la morte armata fino ai denti ed un corpo che un soffio di vento è capace di schiantare. Tanto affanno nel brutale esilio forzato!
A mezzanotte del 31 dicembre 1917, tutti si è svegli ad aspettare l’inizio del 18’. Appena le lancette dell’orologio segna le 12 più un minuto, tutti quanti salutiamo il nuovo anno con un grido di belve ferite a morte. Sembra che noi che vedamo morire la vita di giorno in giorno e che vediamo che questa sia tenta da un sottile filo, volessimo riunire insieme tutte le forze affinché non si spezzi quel filo così teso. Fuori le sentinelle salutano il nuovo anno con fucilate in aria, queste ci rammentano che i carcerieri sono sempre presenti ai loro posto. Il 3 gennaio sera, quando nessuno se l’aspetta, il capitano tedesco, comandante del campo, gira di persona le baracche a comunicare che il governo tedesco ha riconosciuto gli aspiranti come ufficiali e che si partirà molto presto per un campo di ufficiali in due spedizioni: una fra quattro giorni ed una dopo 15 giorni. Il 5 gennaio del 18’ la prima spedizione di cui facciamo parte La Rocca, Lo Presti, Pirrone ed io, parte alle 7 del mattimo. Ognuno porta seco il proprio fagottino: qualche quaderno, qualche libro, qualche pettine, il cucchiaio; questo è tutto il corredo, stracciati, vestiti di cento foggie, con stivaloni tedeschi, con scarpe rotte, da parecchie delle quali escon fuori le dita e brandelli delle uniche calze possedute dal giorno della cattura e tenute sempre ai piedi, vestiti con giubbe avute dai francesi e russi, con zoccoloni di legno (per chi non ha le scarpe) che camminando fanno un fracasso. Prima di uscire dal campo si è perquisiti. Levano coperte a coloro che se le portano appresso perché non hanno ne pastrano ne mantella, per cui rimangono chi sa come col freddo. La perquisizione è fatta dai russi sporchi, luridi, puzzolenti e fetenti, sotto la vigilanza dei tedeschi; ed i russi zozzi ed ignoranti sanno ben fare i birri. I tedeschi distribuiscono un slamino, un’aringa salata e tre razioni di pane Kappa e via alla stazione, tanta turba di famelici e pezzenti, vestiti in mille maniere, che vanno lentamente trascinandosi a stento, con le mani in tasca, curvi nella persona, imbaccuccati con mantelle, cappotti scoloriti, con fazzoletti in testa, con gli occhi fuori dall’orbita, barbuti di peli incolti ed irsuti come selvaggi.
Passiamo dentro Crossen per il quale scorre l’Oder nel quale vediamo galleggiare blocchi di ghiaccio, i borghesi guardano ridendo delle vestimenta nostre che suscitano davvero il riso. All’uscita del campo ciascuno si voge indietro a guardare quel sito di martirio con occhioi favillante di fuoco e maledicendo con tutta l’anima fin tanto che scompare dalla vista. Camin facendo ragioniamo: <<ora che i tedeschi ci han riconosciuti ufficiali, non ci metteranno in carri bestiame ma in vetture di 2^ classe e con riscaldamenti, nel nuovo campo si mangerà qualche cosa in più e di denso e non di liquido, e così si avrà un tenore di vita migliore…>>. Alla stazione ecco la prima delusione: il treno è formato da carri bestiame con panche gelide e piene di neve. Pigliamo posto 50 per vagone e appena montati in carrozza la più parte mangiamo subito le porzioni di pane, il salamino e l’aringa. Che vitto portentoso e gustosissimo, son tre mesi che non si mangia e che si beve. Ingoiamo l’aringa con tutto il sale, e ci riesce talmente dolce quel pranzettino, tanto che l’abbruttimento della fame la quale ci fa dire che in Italia non si è mai mangiato così a sazietà e di cibi così fini. ….