Tecla era una donna libera. Libera e senza un Dio. E senza un Dio, sei anche senza perdono.
Si esaltava al vento come le foglie d’ulivo, si faceva attraversare dalla pioggia, dal sole come una bestia nuda che non ha più pudore. Viveva con la gola impastata di sudore e fango. Ogni giorno si svegliava come se fosse caduta da una finestra, e ogni sera si ricuciva da sola, con gli stessi fili ormai marci dell’infanzia.
Tecla era una puttana della vita. Ma non di quelle che si comprano: lei si lasciava usare senza lucro, perché le faceva sentire qualcosa. La fierezza che mostrava puzzava di sangue rappreso, di scopate fatte con la voglia di farsi male, di colpa che gronda da un lenzuolo in affitto.
Aveva il fuoco dentro. Lo stesso fuoco che a volte ti scalda, altre ti incenerisce. Bruciava uomini, parole, ricordi. Poi si spegneva e si lasciava morire per giorni, in silenzio, a letto, con lo sguardo fisso sul soffitto. La sua era una vita presa a morsi, ma il buio se la mangiava a colazione.
Gli uomini la possedevano come si possiede un’ossessione che non vuole andare via. Con fame, con vergogna. Le donne la giudicavano con gli occhi, ma sotto sotto volevano essere come lei: libere di divertirsi, di saltare ogni tabù, di sbagliare, di farsi male senza rendere conto a nessuno.
Tecla si odiava. Ma quel suo odio era pulito, essenziale. Una specie di fede nera. Lo accudiva come un figlio deforme. E sapeva di piacere. Bastava uno sguardo, una camminata lenta per strada, il modo in cui accendeva una sigaretta con la mano che tremava un po’.
Poi arrivò Loris.
Uno di quelli col nodo alla gola e l’anello al dito. Di quelli che ti posseggono con la bocca ancora piena del nome della moglie. Di quelli che ti amano solo quando ti stanno facendo male.
Tecla lo prese. Lo strappò via alla sua miseria borghese. Si presero. Come due drogati in astinenza. Con violenza. Con poesia. Con una fame bastarda che sapeva già di fine.
L’ascensore si fermò al secondo piano. Il portiere aveva detto: stanza 32.
La porta era socchiusa. Strano. Odore di fumo e disillusione.
Loris entrò. Silenzioso come un ladro. Col cuore fracassato in gola.
Lei era lì. Come le aveva promesso. Seduta sul letto, raggomitolata, nuda. Le ginocchia contro il viso, i piedi gelidi. Era assente. Era già altrove. Forse morta dentro, forse pronta. O forse solo stanca di aspettare.
Tecla a quel tempo aveva ventiquattro anni. Ma il suo corpo era un diario di guerra. Un padre fantasma, una madre disfatta, un fratello impazzito e immobilizzato in una sedia a rotelle.
Le avevano strappato l’infanzia a mani sporche. La giovinezza gliel’avevano strappata via senza chiedere permesso.
Quella notte, nella stanza 32, si amarono.
Ma no, non era amore. Era carne cerca carne. Era colpa che si struscia contro altra colpa. Era un funerale senza prete.
Sudore, alcol, graffi, morsi, sputi, silenzi rotti da urla e orgasmi falsi. Una guerra. Loris sapeva che era l’ultima volta. All’alba doveva tornare alla sua farsa di sempre.
Ma quella notte doveva essere sua. La voleva come si desidera la propria condanna. Ogni suo gemito era un’accusa. Ogni sua carezza, una sentenza.
Tecla dormiva. Di lato. Nuda. Fragile. Sembrava una bambina lasciata in mezzo alla strada. O una salma in attesa del lenzuolo la coprisse.
Loris la guardava e pensava:
“Sono una merda. Ma solo con lei mi sento vero.”
Prese carta e penna. Scrisse:
“Perdonami. Oppure disprezzami. Ma sappi che io ti ho amata a modo mio. Sporco. Malato ma reale.
Poi si alzò. Le sfiorò la guancia. Una carezza finta. O forse troppo vera. Una carezza che era un addio travestito da dolcezza.
Afferrò il cuscino.
Lo premette sul suo viso. Forte. Con tutta la rabbia di una vita buttata nel cesso.
Lei si svegliò, mugolò, cercò di lottare. Ma lui era più forte.
O solo più vuoto.
Il silenzio arrivò. Denso. Senza ritorno.
La morte le si stese addosso come un vestito che aspettava solo di essere indossato.
Finalmente calma. Finalmente finita. Loris restò a guardarla. Sembrava ancora viva. Ma era solo un’illusione.
Era stato il suo ultimo orgasmo. Il più sporco. Il più giusto.
Si rivestì. Dimenticò la cravatta.
Non la guardò più. Aveva paura di innamorarsi del suo cadavere.
Uscì. La città era un abisso muto. Il mare, lontano ma dentro le ossa.
Camminava come un sopravvissuto che voleva morire.
Arrivò al porto. Le barche dormivano come vecchie puttane.
Si sedette. Guardò l’acqua.
“Parlami, bastardo…”, sussurrò.
Ma il mare tace sempre. È uno stronzo codardo. Poi una voce. Forse Tecla. Forse la colpa.
“Vieni con me.”
Loris si sporse. Un passo ancora.
Il suo corpo fu trovato giorni dopo. Gonfio, disfatto. Saponato.
La moglie lo riconobbe con lo stesso sguardo con cui si guarda un piatto rotto.
“Ributtatelo a mare. Ormai appartiene ai fondali della mia vergogna.”
2010 – 2025