Il solaio è instabile e le pareti sono già crollate.
Non ti chiedo nemmeno di pulirti le scarpe: il fango è liquido, ma in estate si seccherà e si sporcherà di grigio, venato come i rami d’albero, mi copriranno il viso di vergogna.
Sul palato, tutte le mie cose, quelle a cui darsi un nome, sdegno o curiosità, con l’orecchio sul foglio, sui passi svelti dei respiri ingoiati, sulle risate passate, e il sole sciolto dentro al caffè la mattina.
Sputami, succhiami. Ma non restituirmi.
L’ansia delle caverne scompare di notte, quando l’infanzia non ha paura del vuoto tra un cornicione e l’altro, tra la mano destra e la sinistra.
La luce della fine picchia in faccia al giorno, si infila nei fermagli silenziosi dei capelli. Il paesaggio è variabile, le attese sono di vetro. Lo squarcio, la distanza:parlano di ogni mio pensiero a seconda di come lo guardi, lo tocchi, lo annusi.
E il mio volto suona su un muro, sul tuo, nell’eco di una chiesa, di un organo a mille canne. E per quell’istante, sulla soglia dei tuoi occhi, sulle mie parole, sarò io ad ospitarti dentro di me.
Ed io, (in te).
A cercare il senso che cade sempre nella terra degli abissi del petto, dove non c’è via ne fuga, e i topi si rosicchiano le code., i dolori, le umiliazioni, il non sentirsi degna di questo respiro a vapore che cammina sui piedi instabili e si trascina tutto quello che voglio addosso.
Quello che non ho, è prendere spazio.
Quello che credo di avere, che accarezza, non esiste.
Mi ritrovo a cavalcioni su un cuscino d’aria con le ali, aspettando il momento per buttarmi.
Cavalli di terracotta, mani da giardino, giraffe dal collo rigido.
Ma mai un leone, qua giù.
Non arrivano le bestie feroci della savana nei pozzi melmosi, nelle fogne del risentimento.
Non c’è criniera d’oro, né fauci splendenti. Gli unici colori esistono dall’altro lato a un palmo da me, all’entrata notturna dove scava e non si ferma questa fame da buio.
2020 – 2025
