Flusso di coscienza in metamorfosi
Il mattino era sempre lo stesso. Ma non aveva “l’oro in bocca”.
Indossare cose inutili, con quella calma che sa di teatro e indifferenza.
I pensieri, s’infilavano nei vicoli ciechi dell’anima, senza mai dare un preavviso. Confidava all’aria le sue paure. Voleva smettere di urlare alla terra, al sole, al vento. Voleva consegnare agli abissi i pianti gelidi, quei lamenti sordi che nessuno ascolta mai.
L’Isola delle Femmine era un puntino solo, circondato dal mare e da venti che tacevano, in attesa del grido di anime di donne, che nel medioevo lì venivano rinchiuse poiché ritenute adultere.
Al centro dell’isola, un lago, una ferita piena d’acqua, scavata nella pietra.
La sabbia sulle rive era fine come polvere di tempo arabo, sfinita dall’attesa.
Il lago di Tecla era nato dalle sue lacrime.
Nessuna mappa lo registrava.
Nessun pellegrino a contemplare l’alba o il tramonto su quelle acque mute.
I vestiti non la liberavano. La imprigionavano in un’idea invisibile, ossessiva.
Solo quella camicia bianca, con il collo alla coreana, sembrava parlare il suo linguaggio: trasformazione. Da roccia a luce.
I bottoni di vetro azzurro, la spilla liberty. Occhi rossi, non di pianto, ma di braci. Il viso ancora bello, con qualcosa d’infantile, come se il tempo avesse avuto pietà.
Pensiero.
Semplicemente bello.
Semplicemente pensiero.
Nessuna mano le sfiorava il volto.
Dalla fronte le sgorgava il ritmo del tempo: i secondi evanescenti, i minuti fratturati, le ore eterne. Il giorno scandiva i battiti interni. E lei capiva, in silenzio, che quel suo essere adesso sarebbe rimasto intatto per molto.
Nessun campanello. Nessuna chiamata. Solo la quiete.
La cagna, con rituale domestico, le infilava le scarpe.
Sulle strade di Tecla, Charlie Parker suonava il destino umano con un sax da bambino.
La musica la alterava. Tutto si riduceva all’osso: l’odore, solo odore. Il buio, solo buio.
Un’essenza. Una forma di verità.
Lo stomaco la richiamò all’ordine. La fame come freno al delirio, al flusso.
La pancia che dice: mangia. Tovaglie di lino bianco, pane caldo, pasti per una voce sola.
Allegro ma non troppo, un crescendo moderato per chi è rimasto.
Un mobile con la luce sempre accesa custodiva un limone solitario, in principio di muffa.
Chiuse il freezer. Un ultimo sguardo alle cose ferme, poi via.
Nel mondo della luce, delle alterazioni. Delle metamorfosi.
Un sorriso, due rughe sottili.
Scivolò fuori come un animale in fuga. Annusava l’aria. Cercava.
una preda, una vittima che le scorticassero l’anima. Voleva attraversare il limbo e tornare alle stelle. Voleva il freddo. Voleva la gioia, quella vera, che ti investe e ti lascia tramortita.
Le albe non mancano, in questo mondo di risvegli.
E le notti, anche quelle insonni, finiscono sempre in qualche tramonto.
Ai vestiti bagnati affidò la sua tristezza. Il tessuto assorbì tutto.
Dentro le maglie, si nascose un attimo preciso: quello giusto per tornare indietro. L’universo interiore di Tecla urlava. Voleva esistere, e per questo la condannava a vagare.
Un uccello sul ramo più alto le ricordò l’ora. Era tempo di girarsi. Di cambiare direzione. Si tolse gli abiti insignificanti.
Nuda, si incamminò verso la città e le sue luci. A lei piaceva pensare di poter credere. Appoggiò il pennello. Aveva appena firmato il quadro.
La donna sulla tela sorrideva. Camminava con labbra serene.
L’idea si muoveva in cerchi, come se danzasse.
Il colore dava forma a una libertà che non sapeva dire.
Nell’astrazione di Tecla, nessun errore.
Solo trasformazione.
G.L. 2012-2025