Appunti di viaggio
C’è un viaggio che mi porto dentro da anni.
Un tarlo silenzioso che scava nelle ore morte, nei risvegli notturni senza motivo, nei giorni in cui fuori non accade nulla ma dentro si muove tutto.
Capo Nord.
Dicono sia il confine del mondo, quel bordo sottile dove la terra smette di raccontare e comincia qualcos’altro.
Non ricordo nemmeno quando ho iniziato a desiderarlo.
Forse da sempre.
O forse è nato dentro di me, come è nata la voglia di libertà. Come quello strato di malinconia che non sai spiegare. Come certe notti davanti allo specchio, quando ti chiedi che cazzo ci fai ancora qui.
Capo Nord, per me, non è solo una meta.
Col tempo è diventato una mitologia personale, una direzione dell’anima. Un’idea ubriaca di purezza.
Un luogo che non ti cura, ma ti guarda in silenzio mentre ti svuoti del tutto.
È strano il rapporto che ho con questo viaggio.
Non l’ho mai fatto. Ci ho pensato mille volte, lo sfioro ogni tanto come si fa con una vecchia cicatrice: una fitta improvvisa, qualcosa che non va.
Ci sono sempre stati ostacoli, scuse, imprevisti. Vite da vivere, vite da sopportare. Ma forse, sotto sotto, non ci sono mai andato perché ho paura.
Paura che, una volta arrivato, qualcosa dentro di me si spezzi per sempre. O peggio: si ricomponga. Finalmente.
Perché lo so cosa cerco lassù. Non è il panorama.
Non è il freddo, che pure amo.
Non sono nemmeno le strade che si perdono nell’infinito.
È una resa dei conti.
Con me stesso. Con i miei fallimenti. Con quella parte di me che ancora urla sotto il peso degli anni e dei giorni tutti da combattere. Vorrei arrivarci svuotato, ridotto all’osso, senza più alibi. Vorrei che il silenzio del Nord mi scavi le ossa, che il vento mi pettini i pensieri come dita ruvide e oneste.
E poi… poi c’è quel sogno assurdo, poetico, forse anche patetico e inutile ma proprio per questo vale la pena viverlo: suonare il pianoforte davanti al tramonto di Capo Nord.
Trovare, per miracolo, un pianoforte. Anche sgangherato. Anche stonato. Anche solo per pochi minuti.
E lasciare che siano le dita a parlare per me.
Nessun pubblico. Nessuna scena. Solo io, il freddo, e quel sole stanco che non vuole andare a dormire.
Forse non saprò nemmeno cosa suonare.
Forse sarà solo un’improvvisazione, una confessione buttata lì, un blues muto che si perde nel vento.
Se chiudo gli occhi riesco già a sentirla: la scala blues, in uno sporco Do maggiore. “C – Eb – F – F# – G – Bb – C.”
E so che in quei minuti, se mai accadranno, sarà come rimettere insieme i pezzi. Come dire alla vita: “Ecco, ho resistito. E ora ti lascio questa musica, come si lascia una bestemmia sotto un cielo troppo bello.”
Capo Nord.
Forse non è nemmeno un luogo.
È la mia ultima fuga. La mia redenzione.
Il mio modo di dire addio senza dire nulla.
Un brindisi solitario all’anima che non ho mai capito del tutto, ma che ancora ci prova.
E se non ci arriverò mai… allora almeno scriverne sarà la mia piccola, bastarda rivincita.
G.L. giugno 2025