Ho conosciuto Babbo Natale

Ho conosciuto Babbo Natale

Ebbene sì, lo confesso. Finalmente mi libero. Finalmente mi sono tolto questo peso dalla pancia.

 C’è un momento in cui bisogna uscire dall’ombra, dire ciò che si pensa, senza riserve, senza paura di mostrarsi per come si è davvero. Vivere nella verità, lontano dallo sguardo degli altri che ti condanna o ti celebra per ciò che non sei. E dunque lo dico: io amo il Natale.
Sì, lo amo.

  L’ho detto, e mi sento più leggero. Come se avessi buttato giù quel peso opprimente, denso e indigesto, come le polpette di mia suocera invecchiate di tre giorni.

  Il Natale è una sorta di meta, un faro lontano che scruto già da gennaio. Mi preparo tutto l’anno, coltivo l’attesa come un rituale, neanche fossi Eduardo. Già a partire dal 15 agosto tiro fuori l’albero e in autunno inoltrato comincio a mettere mano al presepe, pezzo dopo pezzo. Non è mai troppo presto.

  Amo i colori che si accendono nelle strade, le luminarie che riflettono sui vetri dei negozi. Quegli stessi negozi che, immancabilmente, lasciano ancora la scritta “saldi natalizi” appesa, anche quando il Natale è già un ricordo. Amo addobbare l’albero con la stessa finta gioia di sempre, mentre il mio gatto salta sulle decorazioni come se fossi io. Gli lascio cadere le palle giù, rotolandomi con lui sul tappeto. Perfino i calzini sporchi finiscono tra i rami, perché è questo il Natale: un caos travestito da ordine.

  Amo le cene di fine anno, con i sorrisi tirati e gli auguri finti, che sanno di ipocrisia e di un bicchiere di troppo. E poi c’è la spesa del 24 dicembre, un labirinto infernale di carrelli e corsie affollate, sempre con mia moglie al fianco. Che donna fortunata, penso. Almeno quanto la cassiera, che incrocia il mio sguardo mentre svuoto il portafoglio. Quei 400 euro evaporano in un battito di ciglia e lei sorride, quasi divertita.

  Poi vengono i presepi. Li cerco per tutta la città, quelli viventi soprattutto, solo per ripetere la stessa battuta annoiata: “Ma non vi stancate mai?”. E i mercatini, pieni di sciarpe rosse e lingerie che non indosseremo mai. È un ciclo, ogni anno uguale. Ma amo tutto questo. Amo perfino i corto circuiti delle luci sugli alberi e il freddo pungente fuori dai negozi, che si contrappone al caldo soffocante dentro.

  La sera del 24 è la mia apoteosi. Giro per chiese fino a notte fonda, spinto da un impulso che nemmeno io comprendo. E c’è il telefono, sempre in mano, per auguri mandati a caso, magari a un numero preso dall’elenco, o nei messaggi seriali che finiscono con il solito, impersonale “a te e famiglia”. È grottesco, eppure lo faccio.

 Poi ci sono i film, i classici di ogni Natale: Una poltrona per dueMamma ho perso l’aereoIl Grinch. Li guardo come se fossero nuovi, ma dentro di me so che non lo sono. Nulla lo è.

 Eppure, dietro tutto questo, una sera ho incontrato davvero Babbo Natale. Non era in un centro commerciale, né su una slitta. Era seduto su un marciapiede di una stazione, vestito di stracci, con una bottiglia di Jack Daniel’s invecchiato tra le mani. Non aveva regali, solo ferite che non si potevano vedere, schegge invisibili piantate nella carne. I suoi occhi fissavano il vuoto, il mondo gli scivolava intorno. Davanti a lui, un foglio bianco, silenzioso come l’inverno.

 Forse, ho pensato, quello era il vero Natale. Non gli addobbi, non le luci. Solo un uomo, rotto dal tempo, che attendeva. E io, che guardandolo, ho sentito la sua storia come se fosse la mia.

 2024