Fuori nevicava

Fuori nevicava

Fuori nevicava, e io il Natale non l’ho mai digerito.

 Ricordo che stavo seduto a un tavolo traballante, con un bicchiere di Dalmore invecchiato, le carte del ramino tra le mani e un vecchio Loden addosso. Non mi importava di nessuno, scappavo nella notte e lasciavo tutto alle spalle.

  Fuori nevicava, e aspettavo alla finestra o sul sagrato di un balcone. Lei era lì, accovacciata sulla ringhiera con i capelli bagnati e quell’odore di shampoo al mandarino che arrivava fin sotto la strada. La terra tremava, gli alberi erano pieni di luce, e io succhiavo arance spaccate come fossero l’ultima cosa da mangiare.

  Fuori nevicava, e il Natale si avvicinava, ma io lo detestavo. C’era mia madre, con la sua vestaglia di flanella, e mio padre, sempre con un libro in mano. In cucina si affannavano, sguardi complici e finestre che sbattevano per colpa della tramontana. Poi il buio scese, e una valigia mi precedette davanti a un portone di legno troppo grande per i miei anni.

Ricordo mia nonna che venne a vivere per un breve periodo da noi. Fumava, e io non sopportavo il fumo. Una volta vomitai per tutte quelle sigarette, poi ricordo il Pakistano a Roma: cinquemila lire per un pezzo da dividere in tanti e le sigarette che ci scaldavano. Natale arrivava lo stesso, e io sparivo, come un lupo nella foresta.

 Sem. Ricordo Sem con la sua pelliccia sudicia e una mezza fetta di panettone tra le mani congelate. Lo dividemmo a metà. Quella sera anch’io volli essere un barbone, seduto a Piazzale Ungheria, sotto i cartelloni dei cinema. Ultimo spettacolo. Nessuno mi guardò, nessuno mi diede nulla. Come fossi trasparente. Come se non fossi mai esistito.

 Fuori nevicava, e io guardavo la gente mangiare, urlare, affogare nei dolci e nella pasta al forno che doveva durare tre giorni. Io imparavo a stare zitto, a osservare. Guardare loro: ridere di isteria, giocare con le corde, fare i saltimbanchi per sopravvivere. Io, nel frattempo, imparavo a vivere per strada.

 C’erano i toni bassi e le cartucce nascoste, colpi sordi alle orecchie e gare a chi uccideva per primo. L’armadio pieno di roba inutile, la moto affittata per qualche giro a vuoto, le luminarie del consumismo che invadevano tutto. Io impantanato nella neve, scappando dall’ennesimo chiacchiericcio.

  Ho sempre preferito il silenzio della neve.

  Ricordo un bacio rubato. Ricordo le tette, troppo grandi per le mie mani ancora troppo piccole. Poi gli ospedali, le corsie, le urla di morte. Prelievi di sangue senza sole. Le commesse con le gonne corte, quando le donne ancora portavano le gonne.

  La menta tra le labbra, i calzoni sporchi di fango. Da lontano, le luci del cielo e le urla festanti degli altri. Io con le mani bruciate, sporche d’inverno. La vita scivolava via, senza nemmeno salutare.

   E io? Io imparavo a camminare leggero. In mezzo agli altri, quelli che avevano già smarrito il corpo.

  Fuori nevicava, e il Natale l’ho sempre odiato.

 2019 -2024