La porta d’ingresso all’improvviso cigolò.
Loris sedeva sulla sua sedia di legno marcio. Ogni scheggia che si staccava era un pezzo della sua vita andato in frantumi. Le dita sporche, segnate dalla terra, raccontavano di giorni trascorsi a sfiorare solo le cose necessarie, il pacchetto di sigarette senza filtro, il piatto con il cibo freddo, il bicchiere di vino sempre semivuoto. Le unghie ingiallite erano come pagine bruciacchiate di un diario che non scriveva più. O forse non lo aveva mai scritto.
A volte gli sembrava di essere diventato trasparente, che la luce del sole lo attraversasse senza mai scaldarlo, e allora parlava.
Parlava a se stesso, perché le sue parole erano l’unico suono che non lo faceva sentire completamente vuoto. Si guardava allo specchio solo quando fuori c’era il sole, come se avesse paura che, nella penombra, il riflesso potesse scomparire del tutto.
E poi c’erano loro, le pecore, le galline, unici testimoni muti dei suoi deliri. A loro raccontava storie sconnesse, frammenti di una vita che forse aveva vissuto o che avrebbe voluto vivere. Spesso confondeva la realtà con le fantasie. Gli animali lo ascoltavano, o almeno così gli piaceva credere. Forse era solo un modo per non ammettere che, da qualche parte si era perso, e che ormai la follia era l’unica compagna che gli restava.
Aveva smesso di distinguere i giorni, di contare le stagioni. Il tempo era diventato un respiro lento, un’attesa senza fine. E forse, in fondo, non aspettava più nulla. Pensò che aveva aspettato da anni quel momento.
Quel giorno, davanti a lui, all’improvviso si presentò un uomo. Trentacinque anni, forse. Capelli corti e pettinati, camicia bianca pulita, scarpe senza un filo di polvere. Loris lo fissò, cercando di mettere a fuoco quel volto che forse, un tempo, aveva conosciuto.
«Sono tuo figlio», disse l’uomo.
Loris annuì, lentamente, come se stesse confermando un fatto banale, come il blu del cielo e le pecore che cagavano ovunque, anche dentro casa. Non ricordava quanti figli avesse. Tre? Quattro? Uno era morto? Si era dimenticato anche di chiederselo. Non ricordava i loro visi, neanche quello della moglie. Ogni tanto, in qualche cassetto della sua mente, sentiva delle voci. Forse erano dei suoi figli o della moglie.
«Ah», fece.
Il figlio guardò la casa, le pareti completamente nude, il letto disfatto e sporco, le bottiglie vuote accanto ad una specie di camino artigianale spento. «Dio Cristo, hai vissuto così tutti questi anni?»
Loris si grattò la barba, sporca, lunga e incolta come l’erba fuori non tagliata da chissà quanti anni. «Sì.»
Silenzio. Il vento sollevò un po’ di polvere tra loro.
«Perché te ne sei andato?» chiese il figlio.
Loris chiuse gli occhi. Dentro di lui c’era un vuoto così grande che persino la domanda sembrava affondarci dentro, senza eco di ritorno.
Aveva lasciato tutto. Giusto così. Perchè tutto, ad un certo punto, gli era sembrato una montagna di fango. Il lavoro, la società… un circo di ipocriti che si scambiavano sorrisi paralatici e strette di mano viscidi. La famiglia…quella l’aveva perduta già da un pezzo, tra silenzi e sguardi che si sbriciolavano in sguardi che non si incrociavano più. Ma forse era anche colpa sua. I figli forse erano cresciuti troppo in fretta, o forse lui era invecchiato troppo lentamente. Li ricordava a sprazzi, come vecchie foografie. Forse erano ancora lì, da qualche parte, a cercare di capire cosa fosse successo. O forse no. Forse se n’erano fregati.
Loris aveva scelto il nulla. Perchè il nulla, almeno, non ti vende illusioni. Non ti promette amore e felicità a rate. Il nulla era onesto; un deserto pulito senza trappole. E in quel deserto, Loris camminava, cercando la sua verità, non quelle chiacchiere della gente, non nei libri, ma nelle cicatrici, nelle viscere, nel buio che si portava dentro.
Forse era pazzo. O forse era l’unico sano in un mondo di folli che fingevano di non esserlo.
Non importava
L’importante era non mentirsi più.
E lui, almeno quello, non lo faceva più.
«Mi sono rotto, ero troppo stanco », rispose.
Il figlio scosse la testa. «Mamma è morta due anni fa.»
«Ah.»
«Non hai niente da dire a tal proposito?»
Loris guardò verso le pecore, che brucavano davanti casa indifferenti. «Era una brava donna.»
Il figlio rise, amaro. «Cristo santo.» Si passò una mano sul viso, come per cancellare qualcosa. «Volevo solo sapere se avevi dei rimorsi. Se ti importava ancora qualcosa.»
Loris si alzò, le ginocchia che scricchiolavano. Andò alla porta, la aprì ancora un po’. Il sole entrò, disegnando una striscia di luce sul pavimento lurido.
«Non sono fatto per le cose che importano, lo avete sempre saputo», disse. «Scusa.»
«Ti ricordi il mio nome?» chiese il figlio.
Loris socchiuse le palpebre. Nella sua testa c’era una nebbia spessa, come tutto l’alcool che aveva bevuto in quegli anni. Nomi, volti, voci, tutto si era sciolto in un brodo andato male.
«No» ammise.
Il figlio fece un passo avanti. «E quanti figli hai avuto ti ricordi? Quanti di noi hai lasciato indietro?»
Loris guardò le sue mani, le nocche gonfie, le vene che sembravano corde spesse sotto la pelle. «Non lo so più… non mi ricordo più.»
Un silenzio. Poi il figlio esplose.
«Quattro! Quattro figli, Papà! E una moglie che ti aspettava ogni sera mentre tu eri chissà dove a mangiarti lo stipendio!» La voce gli si incrinò, ma non si fermò. «Mamma è morta aspettando che tu prima o poi tornassi. L’ho vista piangere sul letto, ogni sera, malata, e sai cosa chiedeva ancora? «Dov’è Papà? Perché non torna? »
Loris sentì qualcosa torcersi dentro, ma era troppo lontano per capire se fosse un dolore o solo la solita nausea che lo faceva vomitare ogni giorno.
«Avevo diciotto anni quando hai deciso di andartene», continuò il figlio, la voce ora un sibilo. «Ho cresciuto i miei fratelli da solo. Ho lavorato come un cane giorno e notte mentre tu eri qui a far consumare la tua vita di merda!»
Il vento all’improvviso entrò dalla porta aperta, portando con sé l’odore della terra e del letame. Loris avrebbe voluto dire qualcosa, una scusa, una bestemmia, qualsiasi cosa, ma la sua bocca era secca come le balle di fieno sotto il sole.
«Non ho niente da dirti», disse alla fine. «Nemmeno una scusa.»
Il figlio lo guardò, e per la prima volta Loris vide qualcosa di familiare in quegli occhi: la stessa disperazione che vedeva ogni mattina quando si guardava allo specchio.
«Lo so», disse il figlio. «Ma io sono qui comunque. Perché io, a differenza tua, non sono un vigliacco.»
Si sedette sulla vecchia sedia accanto a quella specie di camino spento, facendola scricchiolare sotto il suo peso. «Allora? Offrimi un caffè, da bere almeno!. Tanto ormai il peggio l’hai già fatto.»
Loris lo fissò, incredulo. Poi, senza dire una parola, prese la bottiglia dal tavolo e gliela porse. Fuori, una pecora belò. Il figlio sbattè la bottiglia sul tavolo con tutte le sue forze, la bottiglia andò in mille pezzi, si alzò e senza dire nulla andò via, sbattendo la porta dietro di sé.
Loris rimase immobile, il respiro che gli usciva a fatica dalle narici pelose. Il silenzio tornò a riempire quella stanza, più pesante di prima, come se il figlio avesse portato via con sé anche l’ultimo brandello d’aria rimasta.
D’un tratto, qualcosa si spezzò dentro di lui. Un brivido gli salì dalle gambe, gli serrò la gola, e poi, il pianto. Lacrime grosse, sporche, che gli rigavano il viso come fa la pioggia su un vetro impolverato. Singhiozzi da ubriaco, da uomo che non piangeva da così tanto tempo che si era dimenticato come si faceva.
Si lasciò cadere in ginocchio, le mani sporche di terra e sudore che affondavano nei capelli unti. “Che schifo”, pensò. “Che schifo di vita.”
Aveva sofferto. Aveva fatto soffrire. Non c’era rimedio, non c’era liberazione. Solo questa stanza sporca come lo era la sua anima, queste quattro mura che per anni avevano assistito alla sua lenta rovina.
Si trascinò verso il tavolo, dove il coltello arrugginito, quello con cui tagliava il pane sempre duro, quello che non affilava mai, luccicava sotto la debole luce della finestra. Lo prese in mano, sentendo il metallo freddo e ruvido contro il palmo.
Non ci pensò due volte.
Un gesto secco, brutale. La lama gli entrò nella gola come se stesse tagliando un pezzo di carne marcia. Il dolore fu acuto, ma breve. Poi, il caldo. Il sangue gli zampillò tra le dita, scivolò giù per il collo, gli inzuppò la camicia logora.
Cadde in avanti, il viso sbattuto contro il pavimento. Il mondo diventò rosso, poi nero, come la fine di un film.
Lo trovarono tre giorni dopo.
Erano due contadini, uomini dalla pelle screpolata dal sole, venuti a chiedere se avesse ancora quelle pecore da vendere. Bussarono, aspettarono, poi spinsero la porta e videro.
Loris giaceva in una pozza di sangue condensato. Le mosche gli ronzavano attorno, si posavano sugli angoli della sua bocca semiaperta.
«Dio», borbottò uno dei due.
L’altro si fece il segno della croce. «Chi era ‘sto poveraccio?»
Il primo scosse la testa. «Mai visto bene. Viveva qui da solo da tanti anni, credo.»
Si guardarono intorno, alla casa vuota, alle bottiglie rotte, al letto sfatto. Nessuna foto, nessuna lettera, niente che potesse dire chi fosse stato quest’uomo.
«Che facciamo?»
«Chiamiamo qualcuno. Che ne so io.»
Uscirono in fretta, lasciando la porta aperta. Il vento entrò, sollevando un po’ di polvere dal tavolo.
Fuori, le pecore belano ancora.
Dentro, Loris finalmente non sentiva più niente.
Fuori, le pecore continuavano a brucare.
Dentro, il silenzio era perfetto.
2025